I primi 100 giorni del secondo mandato di Donald Trump hanno confermato quanto promesso in campagna elettorale: un ritorno deciso alla deregulation, un attacco diretto agli impegni ambientali presi negli anni precedenti e una rinnovata centralità dell’industria fossile nell’agenda energetica americana.
Trump è tornato alla Casa Bianca con un messaggio chiaro: disfare ciò che l’amministrazione Biden aveva ricostruito in tema di lotta al cambiamento climatico. E lo ha fatto sin dai primi giorni, firmando una serie di ordini esecutivi volti a ribaltare regolamenti ambientali considerati “nemici dell’economia”. Tra i primi a cadere c’è stato il ripristino delle autorizzazioni accelerate per trivellazioni e gasdotti, inclusi nuovi progetti in Alaska e nel Golfo del Messico.
Il nuovo capo dell’Epa, scelto tra i ranghi più conservatori del think tank American Energy Alliance, ha immediatamente sospeso molte delle linee guida sulle emissioni industriali e ha promesso “una nuova era di cooperazione con le aziende”. Parole che, tradotte, significano meno controlli e più libertà per i grandi inquinatori.
Dal suo ritorno alla Casa Bianca, Trump ha già firmato 130 ordini esecutivi, un numero record che batte tutti i suoi predecessori. Oltre la metà dei decreti mira a smantellare i programmi federali, mentre una parte consistente è dedicata a battaglie culturali o a colpire i suoi oppositori politici. Ma è sul fronte ambientale che il cambio di passo risulta più netto e potenzialmente duraturo.
Revoca di 67 ordini esecutivi
Tra i primi atti del secondo mandato c’è stata la revoca di 67 ordini esecutivi dell’amministrazione Biden, molti dei quali legati alla transizione energetica e al contrasto al cambiamento climatico. L’8 aprile è arrivato uno dei decreti più discussi: il Dipartimento di Giustizia è stato incaricato di sospendere l’applicazione delle leggi statali che limitano le emissioni di gas serra, rimuovendo di fatto uno dei pochi freni all’espansione dell’industria fossile. A questa mossa si è aggiunta l’autorizzazione accelerata dei nuovi progetti di trivellazione, soprattutto in Alaska e nel Golfo del Messico.
Altro colpo al fronte climatico è arrivato con il ritiro formale dagli impegni sottoscritti al vertice COP28, accompagnato dalla sospensione del programma federale di transizione elettrica per i veicoli. Le case automobilistiche, che avevano già investito miliardi nella riconversione green, si trovano ora a dover fare i conti con un’improvvisa marcia indietro politica. Senza essere smantellati, molti servizi federali vengono drasticamente ridotti sotto la guida di Elon Musk e della sua Commissione per l’efficienza governativa: sette ordini esecutivi ne specificano le attività.
In ambito legislativo, Trump ha incassato il sostegno del Congresso per allentare ulteriormente le restrizioni sulle emissioni di metano e per bloccare i nuovi standard ambientali su edilizia e infrastrutture pubbliche, previsti nei piani dell’amministrazione precedente.
Nonostante le critiche della comunità scientifica e l’allarme lanciato da numerosi Stati, il presidente continua a difendere le sue scelte in nome della sovranità energetica e della crescita economica. “Non possiamo permettere che ideologie ambientaliste distruggano l’industria americana”, ha dichiarato recentemente in una conferenza stampa.
Ma se a Washington l’ambiente è tornato a essere terreno di scontro politico, in molte città e Stati – dalla California al Vermont – continuano a nascere iniziative indipendenti per mantenere viva la transizione ecologica. Un’America spaccata anche sul clima, dove la sfida tra crescita e sostenibilità si gioca giorno per giorno, decreto dopo decreto.
Non solo ambiente
Ma l’ambiente è solo una delle direttrici lungo cui Trump ha esercitato il suo potere normativo. Ha decretato la chiusura o il ridimensionamento di varie istituzioni storiche, come l’agenzia per lo sviluppo Usaid e lo United States Institute of Peace, entrambi smantellati in nome della “riduzione della burocrazia”. Anche il ministero dell’Istruzione è sotto attacco, con la proposta di trasferire le sue competenze ai singoli Stati.
In parallelo, Trump ha lanciato un’offensiva nella cosiddetta “guerra culturale”: 40 ordini esecutivi hanno colpito temi legati a genere, etnia e religione, tra cui il bando dei termini legati all’identità di genere nei documenti federali e l’esclusione delle persone transgender dall’esercito. Emblematici anche il cambio di nome del Monte Denali (tornato a chiamarsi Monte McKinley) e del Golfo del Messico, ora “Golfo d’America”.
Infine, un’ampia fetta degli ordini firmati ha avuto un chiaro intento punitivo: sono stati revocati i nulla osta di sicurezza a 51 ex funzionari, colpiti studi legali avversari e limitata l’autonomia dei musei pubblici accusati di “indottrinamento ideologico”.
Accanto a queste misure spiccano decreti singolari ma non meno rivelatori: dalla creazione di una riserva strategica di bitcoin per fronteggiare la Cina, a regolamenti su cannucce, docce e rivendita di biglietti per concerti. Simboli di un presidenzialismo sempre più personale e diretto, in cui l’ambiente diventa terreno di conquista, più che di protezione.