La geopolitica dei fondali oceanici sta surriscaldandosi. Non è guerra aperta, ma quasi. Lo scorso 24 aprile, il presidente Donald Trump ha emesso un ordine esecutivo per accelerare il rilascio di licenze statunitensi per l’estrazione mineraria in acque internazionali, così da dare il via a quella che l’amministrazione ha definito una “corsa all’oro” per “contrastare l’influenza crescente della Cina” e questo ha provocato immediate reazioni.
La Cina e altre nazioni hanno condannato questa mossa durante un incontro dell’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (ISA), l’organizzazione affiliata alle Nazioni Unite che sta redigendo regolamenti per governare l’estrazione mineraria nel fondale marino globale. “È scandaloso che la parte statunitense stia ignorando la forte opposizione della comunità internazionale e stia portando avanti atti egemonici unilaterali,” ha dichiarato il rappresentante cinese Wenting Zhao durante il meeting ISA a Kingston, Giamaica.
L’Autorità Internazionale del Fondo Marino non è un’organizzazione internazionale molto conosciuta, anche se ha giurisdizione su circa metà della superficie terrestre. Ma con 169 Paesi e l’Unione Europea come membri, l’ISA è l’unico organismo riconosciuto al mondo con l’autorità di governare le attività in alto mare. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), l’ISA controlla il mare fino a 200 miglia nautiche dalle coste degli Stati, cioè nell’area che è considerata il patrimonio comune dell’umanità.
Il 54% degli oceani
La cosiddetta “Area ISA” copre circa il 54% degli oceani del mondo. Questo fatto sta diventando sempre più significativo, poiché l’Area è ricca di risorse di grande valore. La regione di maggiore interesse per l’estrazione di minerali in profondità, grazie alla densità eccezionalmente elevata di noduli polimetallici, è la Zona Clarion-Clipperton (CCZ), situata nell’Oceano Pacifico centrale e amministrata dall’ISA. Estesa su circa 4,5 milioni di chilometri quadrati, una dimensione paragonabile all’Unione Europea, la CCZ è diventata un punto focale per le iniziative di estrazione dai fondali marini.
Dal 2014 – ha denunciato l’ong Diplo – l’ISA non è riuscita a finalizzare una serie completa di norme, regolamenti e procedure basate su dati scientifici per disciplinare le modalità di estrazione in acque profonde. Nel 2021 la Repubblica di Nauru ha imposto una scadenza rigida, invitando l’ISA a completare il lavoro fino al luglio 2023. Con una mossa coraggiosa, Nauru ha presentato una lettera formale in cui annunciava che la Nauru Ocean Resources Inc, una sussidiaria dell’azienda canadese The Metals Company (allora nota come DeepGreen Metals), intendeva iniziare le operazioni di estrazione dai fondali marini entro il 30 giugno 2023, facendo di fatto pressione sull’Autorità internazionale dei fondali marini affinché finalizzasse i suoi regolamenti minerari entro tale scadenza.
A dare peso a questa scadenza sono stati gli esperimenti condotti con successo sia da TMC che da Global Sea Mineral Resources (un’azienda belga del gruppo DEME), che hanno dimostrato che i noduli polimetallici potevano effettivamente essere raccolti dal fondo dell’oceano con sistemi robotici e trasportati a una nave di superficie attraverso un tubo montante verticale. Ma la scadenza è passata e nulla è successo. Secondo fonti diplomatiche, ISA potrebbe concludere il suo lavoro entro la fine del 2025, ma agli Stati Uniti questo non piace perché loro non sono firmatari dell’ISA e si troverebbero in una sorta di limbo legale, e così Trump ha deciso di forzare la mano con l’ordine esecutivo “Unleashing America’s Offshore Critical Minerals and Resources”.
Pressioni sulla Casa Bianca
“Una società canadese di estrazione dai fondali marini, The Metals Company – ha scritto Bloomberg – ha esercitato con successo pressioni sul presidente degli Stati Uniti, sfruttando la sua ricerca di metalli liberi dalla Cina. I fondali marini mondiali, ha sottolineato più volte TMC facendo pressioni sui politici e sulla Casa Bianca, contengono le maggiori riserve stimate di minerali come il cobalto e il nichel sotto forma di rocce nere chiamate noduli polimetallici, che ricoprono a miliardi i fondali, in particolare quelli dell’Oceano Pacifico. A pochi giorni dall’ordine di Trump, la filiale statunitense di TMC ha presentato, ai sensi della legislazione statunitense, la prima domanda al mondo per l’estrazione di minerali dal fondale marino in acque internazionali”.
Una startup della Silicon Valley chiamata “Impossible Metals”, nel frattempo, ha richiesto una licenza per esplorare ed eventualmente estrarre noduli nelle acque statunitensi al largo delle Samoa americane, con l’obiettivo di raccogliere finanziamenti per un miliardo di dollari. Il 14 luglio, poi, un alto dirigente del gigante della difesa statunitense Lockheed Martin ha dichiarato al Financial Times che “l’azienda è in trattative per dare ai minatori dei fondali marini l’accesso alle aree internazionali del Pacifico che ha in licenza dagli Stati Uniti”.
Una reazione dura
La reazione del segretario generale dell’ISA alle mosse innescate dall’ordine esecutivo è stata immediata: “Nessuno Stato ha il diritto di sfruttare unilateralmente le risorse minerarie dell’area al di fuori del quadro giuridico stabilito dall’UNCLOS”. Parole dure, ma parole, non avendo ISA in quanto tale nessuna possibilità di attuare un blocco contro la più grande potenza navale del mondo. E qui si aprono due scenari. Il primo è che il quadro internazionale ISA rega e che le attività minerarie sui fondali marini promosse e autorizzate gli Stati Uniti siano dichiate fuorilegge, l’altro è che si scoperchi il vaso di pandora e ognuno vada per la sua strada, in primis la Cina che ha già la assoluta prevalenza del controllo dei metalli rari e vuole mantenerlo. A sostegno di questa ipotesi il fatto che Il 15 febbraio 2025, la Cina e le Isole Cook hanno firmato un memorandum d’intesa per collaborare nella ricerca ed eventuale estrazione di minerali dal fondale marino di queste ultime.
Sui fondali marini il tempo volge al brutto e il rischio è che come al solito ci vada di mezzo l’ambiente. “Questo nuovo settore minerario – scrive Diplo – non comporta solo sfide geopolitiche. Gli impatti ecologici includono la distruzione della biodiversità nelle profondità marine, una maggiore perturbazione degli ecosistemi e l’inquinamento degli oceani mondiali causato dall’uomo. La maggior parte delle specie di questi ecosistemi remoti si è adattata alle condizioni uniche delle profondità oceaniche ed è altamente vulnerabile alle perturbazioni umane. Studi seri dimostrano che lo sfruttamento dei fondali marini profondi causerà inevitabilmente una perdita di biodiversità. Negli anni ’80, al largo delle coste del Perù, è stata condotta una simulazione degli impatti fisici attesi dallo sfruttamento dei fondali marini. Quando il sito è stato rivisitato nel 2015, l’area ha mostrato pochi segni di recupero”.
Le vere sfide dunque sono due: una è quella per il controllo dei minerali strategici, la seconda è evitare che sui fondali oceanici, nascosti dal mondo, vada in scena l’ennesima devastazione ambientale.