12 Luglio 2025
/ 11.07.2025

Antartide, non c’è abbastanza ghiaccio per le foche

Crollo demografico per le foche di Weddel: dimezzate in meno di 30 anni. Sanno immergersi fino a 600 metri e rimanere in apnea fino a 80 minuti. Ma non sanno come affrontare la crisi climatica

“Ora sentiamo di animali e piante andare verso l’estinzione, ogni giorno, sparendo per sempre. Nella mia vita ho sognato di vedere grandi mandrie di animali selvatici, giungle e foreste pluviali piene di uccelli e farfalle, ma ora mi chiedo se i miei figli potranno mai vedere tutto ciò”.

Un discorso attuale, anzi, attualissimo. A pronunciarlo fu l’allora appena dodicenne Serven Suzuki, attivista canadese e fondatrice dell’Environmental Children’s Organization, durante il Summit della Terra organizzato dall’Onu a Rio de Janeiro, nel 1992. Un discorso che se all’inizio degli anni Novanta suonava come un avvertimento, oggi suona come una profezia.

Uno dei casi più recenti riguarda le foche di Weddel, delle otarie orsine antartiche e, in minor misura, gli elefanti marini del Sud. Una fotografia, questa, scattata in Antartide – in particolare sull’isola di Signy, nell’arcipelago delle Orcadi Meridionali – da una nuova ricerca condotta dal British Antartic Survey, l’istituto del Natural Environment Research Council.

Il crollo demografico, secondo gli esperti, è in relazione alla variazione dei ghiacciai marini, che dal 1982 ad oggi hanno subito una regressione di oltre 2.700 tonnellate nel corso di 44 anni, con circa il 40% che si è ridotto soltanto negli ultimi 25 anni.

I dati dello studio

Il dato più impressionante che emerge dallo studio riguarda la foca di Weddel, la cui popolazione è diminuita del 54% dal 1997 a oggi. Questi animali, tra i più adattati alla vita nei ghiacciai, dipendono infatti dal ghiaccio marino stabile per ogni aspetto della loro vita, dal riposo alla riproduzione, fino alla caccia. Sono eccellenti nuotatrici, capaci di raggiungere velocità fino a 13 chilometri orari, di immergersi fino a 600 metri di profondità e di rimanere in apnea anche per 80 minuti consecutivi. Eppure, nemmeno queste straordinarie abilità sono sufficienti per proteggerle dalle conseguenze del cambiamento climatico in corso.

Neanche le otarie orsine antartiche se la passano bene: vivono e si riproducono sulla terraferma, ma risentono in maniera importante della trasformazione dell’ambiente marino. In particolare, lo scioglimento dei ghiacciai influisce sulla disponibilità del cibo, e dunque sulla catena alimentare. Risultato? Un calo del 47% nelle popolazioni registrate. Un dato che, in altri termini, riflette l’estrema vulnerabilità di questi animali agli sconvolgimenti ambientali in corso.

Meno marcato ma comunque significativo il declino degli elefanti marini del Sud, che completano il quadro tracciato dallo studio. La loro diminuzione è sì meno pronunciata rispetto alle altre specie studiate, ma rappresenta comunque un campanello d’allarme.

L’importanza del monitoraggio

Dunque, da questo lavoro, oltre ai preoccupatissimi dati, emerge l’importanza dei monitoraggi ecologici su scala decennale. Infatti, solo grazie a osservazioni di lungo periodo è possibile comprendere fino in fondo le dinamiche che legano fauna e ambiente in ecosistemi estremi come quello antartico.

E, come ha sottolineato il principale autore dello studio, Michael Dunn, per una volta la scienza ha potuto non solo fare ipotesi, ma confermare con dati certi come la fauna selvatica stia reagendo – male – alla perdita di ghiaccio marino e ai cambiamenti climatici. “Il quadro che emerge è profondamente preoccupante”, dice.


Inoltre, i ricercatori avvertono che i cambiamenti osservati non sono eventi isolati, ma il riflesso più ampio di uno sconvolgimento della rete alimentare antartica. Le foche, in quanto predatori ai vertici della catena, sono tra le prime a subire gli effetti della crisi, ma le ripercussioni potrebbero estendersi a tutto l’ecosistema, minacciando anche specie che vivono a latitudini più elevate.

Insomma, lo studio suona come l’ennesimo allarme su quanto sta accadendo nei luoghi più remoti del pianeta, luoghi che sono lontanissimi da noi, ma allo stesso tempo vicini: il ghiaccio che si scioglie non è solo una perdita paesaggistica o simbolica, ma l’inizio di una reazione a catena dagli effetti ancora imprevedibili. E ignorarlo significa mettere a rischio non solo la biodiversità dell’Antartide, ma l’equilibrio dell’intero sistema climatico globale.

“Non sapete come riportare indietro i salmoni in un fiume inquinato – diceva Serven nel lontano 1992 – Non sapete come far tornare una specie animale estinta. E non potete restituirci le foreste che una volta crescevano là dove ora c’è il deserto. Se non sapete come sistemare tutto ciò, smettete di distruggerlo”. Oggi, a distanza di 33 anni, dobbiamo porci una semplice domanda: perché non abbiamo smesso di distruggerlo?

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