15.11.2024
Tra loro è rimasto un filo sottile di coesistenza su cui contare. Ascoltare i giovani significa tanto, anche se non hanno capito. Solo l’attenzione può dare inizio al dialogo per colmare il distacco generazionale tra due mondi che non hanno ancora imparato a comprendersi. Veduta.
Siamo nel perimetro ristretto del luogo comune. Ma quando uno stereotipo si intride d’una carica provocatoria, allora la deflagrazione appare vicina. Il ritornello “I giovani non capiscono niente”, diventa tesi controversa, e da semplice battuta (al vetriolo) s’ammanta di certezze vere o presunte tali, tutte assise sul banco degli imputati nel tribunale della confutabilità. Quali strumenti di valutazione (scientifica?) esistono per affermazioni perentorie di tal fatta? Nessuno. Risulta evidente come le distanze generazionali possano incidere nel difendere il proprio segmento d’appartenenza, sul piano scosceso di una sicurezza sempre in stato di instabilità e bisognosa di conferma definitiva. Parlare di giovani e del loro mondo, da sempre, è esercizio ostico oltreché rischioso, perché le esagerazioni sono amplificate da roboanti frasi ad effetto: “I giovani non hanno più valori, non vogliono lavorare. sono privi d’interessi”.
Ribaltando il dato di fondo che il mondo giovanile non possa essere identificato in un’unica entità omogenea, ma piuttosto in una realtà multiforme e polisemica, orbitante nella rete satellitare di tanti piccoli pianeti per le varie fasce d’età. In un caleidoscopio, dall’inclusione nei social media, dal potere degli influencer all’educazione sentimentale, il percorso dà voce al punto di vista dei boomer (nati tra il 1946-1964), fino a quello della generazione Z (1995-2012), che incidentalmente offre l’occasione di curiosare in altre bolle, fuoriuscendo dalla propria echo chamber, per allacciare un dialogo e imparare a guardare con occhi diversi, argomentando motivazioni e aprendosi alle ragioni degli altri.
Bisognerebbe evitare di parlare dei giovani come di una massa indistinta (amorfa di bamboccioni e sdraiati, per gli ipercritici) dalle caratteristiche comuni, contrapposta ad una corrispettiva categoria degli adulti omogenea al proprio interno. È indubbio pensare che il piano dei linguaggi non verbali e della comunicazione in genere abbia modificato i processi mentali con le consequenziali modalità espressive delle ultime generazioni, segnando in modo irreversibile il cambio di passo dell’età contemporanea. I giovani hanno interpretato a loro modo, assorbendone tematiche e funzionalità, i cambiamenti epocali nel campo della comunicazione telematica, ma anche delle arti visuali e musicali, creando un mondo di conoscenze che guarda al futuro. Con in più la volontà precisa di scavalcare il muro (dell’incomprensione) di quanti tra gli adulti continuano a non recepire il mutamento, ondeggiando tra rifiuto del nuovo e adesione acritica ai suoi aspetti più consumistici: il cellulare di grido, il capo firmato, l’auto nuova fiammante, la cura ossessiva del proprio corpo, la ricerca dello svago frivolo modello happy hour.
La sensazione che gli adulti non comprendano i giovani che vivono loro accanto si trasforma in estraneità (e genera un effetto di reciprocità), incapacità di ascoltare, quando invece sarebbe auspicabile riconoscere la dignità dell’interlocutore, ritenendolo portatore di un’esperienza, di un pensiero e di esigenze importanti. Oggi, al tempo dei social, le fasce giovanili sono espressione di un cambiamento antropologico mutuato da una tecnologia avanzata che ha modificato il loro modo di entrare in relazione con la realtà, con sé stesse, modificando il modo di dare senso alle esperienze fondamentali della vita. I timori di Papa Francesco («Troppo spesso siete lasciati soli») evidenziano il distacco da una generazione adulta non disposta o preparata ad essere punto di riferimento per chi ambisce a offrire risorse per la società in crescita. L’ascolto, dunque, rimane l’unica condizione per instaurare con i giovani una relazione che li aiuti a diventare i protagonisti di domani.