Entrato giovane nelle file della Resistenza, nel dicembre del ‘43 Primo Levi viene arrestato in Valle d’Aosta e poi deportato. Esce da Auschwitz III Monowitz solamente alla liberazione del campo, il 27 gennaio, in quello che diventerà il Giorno della Memoria.
Rimpatriato, Levi comincia a raccontare. Se questo è un uomo è appena l’inizio, arriveranno tanti altri libri. La ferita, però, non si rimarginerà mai e la mente tornerà costantemente all’inferno del lager. Dalle meditazioni dello scrittore nasce nel 1986 I sommersi e i salvati, un’opera dal tono diverso, una sorta di testamento spirituale che chiude il cerchio della sua quarantennale carriera letteraria. Un anno più tardi, l’autore si toglie la vita. Non sapremo mai il motivo, custodiamo tuttavia quel suo ultimo libro e quel messaggio: gli uomini sono capaci di costruire meccanismi mostruosi a causa dei quali la vittima si fa carnefice di se stessa.
La passione per la scienza e in particolare la laurea in chimica di Levi aiutano a comprendere il modo di strutturare la narrazione, dominata dalla necessità di decifrare quanto si presenta cupo e intricato. Da questa esigenza viene alla luce un capolavoro di estrema lucidità: meno di duecento pagine che chiunque, oggi, dovrebbe custodire sul comodino. Tra i più completi lavori sui lager nazisti, I sommersi e i salvati è un saggio folgorante sulla disumana condizione di vita degli internati. Non tanto in riferimento alla ferocia nazista in sé, bensì allo stato di degradazione morale: una disumanizzazione tale da togliere significato alla morte.
Si parte da una premessa: “La memoria umana è fallace”. È condizionata da ciò che si sente, si legge o si vede in seguito. In qualità di sopravvissuto, raccontare quindi è per lo scrittore un dovere morale. Raccontare per evitare che quei giorni, quelle settimane, quei mesi siano trasformati in una parentesi da dimenticare o – peggio ancora – siano negati, smentiti. L’avvertimento è pieno d’angoscia: “Ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate, anche le nostre. Conoscere è necessario”. A distanza di anni, la maggioranza dei superstiti impara a convivere con l’ossessione che, prima o poi, le sofferenze patite possano finire relegate in disparte. In un incubo ricorrente, Levi tenta di parlare con un interlocutore che però si volta e si allontana in silenzio. Una speranza, questa, su cui contavano i nazisti, certi di ripulire ogni traccia degli atroci crimini commessi.
Il senso di colpa dei superstiti è uno stato d’animo che si prova nei confronti di chi, da quell’abisso, non è riuscito a venir fuori. Qui si collega l’afflizione provata al momento della liberazione, attimi in cui anziché gioire si è colpevoli di essere sopravvissuti. L’autore ricorda di aver più volte negato il suo aiuto ad altri: “Sono in pochi ad aver danneggiato, derubato o percosso un compagno; per contro, quasi tutti si sentono responsabili di omissione di soccorso”, tanto da farli vergognare della loro posizione e pentire per quanto commesso dalle SS.
Nel lager vengono alla luce due categorie ben distinte, i sommersi e i salvati. I primi, coloro che non hanno trovato un modo per sottrarsi alla morte, contrapposti ai secondi che, dopo aver toccato il fondo, sono potuti tornare a una “normale” esistenza. Levi chiarisce come la maggior parte dei salvati, divenendo funzionale ai meccanismi del campo, sia riuscita a sopravvivere accettando di abbandonare la propria moralità. Segue la descrizione dei sistemi che hanno condotto alla creazione di “zone grigie” di potere tra oppressi e oppressori. Davanti a incessanti sofferenze quotidiane, l’animo umano non ha scelto l’unione contro l’aguzzino, ma una lotta tra poveri: “Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano”. La scoperta di non poter contare sull’appoggio degli altri prigionieri ha portato molti a perdere la speranza, e a soccombere. La zona grigia è quindi il compromesso, la collaborazione, il favore ottenuto con l’abiezione nella lotta alla sopravvivenza. I cosiddetti “corvi del crematorio” – i gruppi di internati dei sonderkommando, in tedesco “unità speciali” – costituivano la base della piramide. Levi ne è convinto: “Aver concepito e organizzato i sonderkommando è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo”. Le rare testimonianze pervenute su questi prigionieri rappresentano una delle pagine più toccanti e crude della storia di Auschwitz.
Uccidere per non essere ucciso. Cremare i corpi di amici e parenti per non fare la stessa fine. Nei campi di concentramento erano i compiti delle unità speciali, quasi esclusivamente composte da deportati ebrei. “Attraverso tale istituzione”, sottolinea Levi, “si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti”. Dovevano essere ebrei a mettere ebrei nei forni, per avvalorare quel pregiudizio infame che li classifica sotto-uomini, un popolo pronto a distruggere se stesso. D’altro canto, delegare agli oppressi la parte più sporca del lavoro doveva servire ad alleggerire coscienze di piombo. I sonderkommando erano costretti a occuparsi di raccolta e cremazione dei corpi. Dovevano inoltre accompagnare i deportati alle camere a gas, tagliare i capelli ai cadaveri, estrarre loro i denti d’oro, recuperare oggetti e indumenti. Nel frattempo, osservavano con i propri occhi un destino a cui erano temporaneamente sfuggiti. Le unità, difatti, venivano periodicamente eliminate. La squadra successiva cremava i corpi della precedente. Così funzionava. In questo modo si manteneva il segreto circa la sorte di milioni di esseri umani deportati dall’Europa occupata dai nazisti.
Chi veniva selezionato per il sonderkommando era obbligato ad accettare l’incarico conferitogli: non si aveva alternativa, se non la morte immediata. A differenza di altri, i pochi sopravvissuti dei corvi del crematorio hanno deciso di non raccontare nulla per anni: il ruolo di complici dei carnefici non concedeva loro pace. “Credo che nessuno”, spiega Levi, “sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l’esperienza del lager, tanto meno chi non l’ha conosciuta”. E chiarisce: “Chiunque osi tentare un giudizio, immagini di trovarsi scagliato in un inferno indecifrabile: qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato”.
Un membro delle unità speciali perdeva ogni inibizione morale reagendo con l’apatia all’orrore, con la consapevolezza che di lì a poco avrebbe seguito l’identico destino di coloro che stava collaborando a uccidere. Era assuefatto a tutto, non aveva contatti con uomini vivi. Il primo comandante di Auschwitz Rudolf Höss così ha descritto, nelle sue memorie, una scena che non dà adito a ulteriori commenti sul decadimento umano raggiunto: “Nell’estrarre i cadaveri da una camera a gas, improvvisamente uno del sonderkommando si arrestò, rimase per un istante come fulminato, quindi riprese il lavoro con gli altri. Chiesi al kapò che cosa fosse successo: disse che l’ebreo aveva scoperto tra gli altri il cadavere della moglie. Continuai ancora a osservarlo per un certo tempo, ma non riuscii a scorgere in lui nessun atteggiamento particolare. Continuava a trascinare i suoi cadaveri, come aveva fatto fino ad allora. Quando, dopo un poco, ritornai al comando, lo vidi seduto a mangiare in mezzo agli altri, come se nulla fosse accaduto. Possedeva una capacità sovraumana di celare le proprie emozioni, o era diventato talmente insensibile da non saper più reagire?”.
La Shoah è stata una folle ma lucida azione criminale perpetrata attraverso la graduale e meticolosa applicazione di una violenza tanto fisica quanto psicologica. E ritorniamo all’inizio: gli uomini sono capaci di costruire meccanismi mostruosi a causa dei quali la vittima si fa carnefice, di se stessa e non solo. Ciò che si ripete – ciclicamente e con sottili sfumature – in giro per il mondo, Europa compresa.
Dinanzi ai tragici eventi che si susseguono a Gaza, si è costretti a riconoscere una dinamica così antica da sembrare, purtroppo, ineluttabile. Lo possiamo tranquillamente ribadire oggi, ennesima giornata in cui da spettatori assistiamo al genocidio di un popolo su un’altra costa meno fortunata del nostro stesso mare. Eppure, Primo Levi lo ha ribadito tantissime volte: “Auschwitz è intorno a noi”. Scivolare nuovamente nel baratro è, pertanto, possibile. E lo è perché i nazionalsocialisti, come noi, erano uomini comuni. Basti pensare al profilo di Adolf Eichmann: burocrate di grado modesto, inappagato da reiterati fallimenti scolastici e lavorativi, desideroso di riscattare una precaria condizione sociale, nazista per caso, criminale – in un certo qual senso – per conformismo. Il valore di rievocare questa giornata è tutto, specificatamente, racchiuso qui: il 27 gennaio serva sempre da monito.