2 Aprile 2025
/ 31.03.2025

Buco dell’ozono richiuso entro il 2035? Allora, volendo, possiamo smettere di venire inquinati…

Il buco dell’ozono si sta richiudendo perché le politiche stabilite 38 anni fa dalle Nazioni Unite sono state portate avanti senza incertezze. Invece, le avvertenze degli scienziati, che hanno la stessa evidenza, si scontrano contro un muro di resistenze e di bugie

Nella marea di brutte notizie, angoscianti e preoccupanti, che ci bombardano ogni giorno, ogni tanto è una consolazione riportarne una positiva. A maggior ragione quando questa notizia ci rammenta un semplice fatto: se vogliamo e se ci mettiamo sotto sul serio, noi umani possiamo risolvere problemi giganteschi quanto complicati. Nei giorni scorsi uno studio pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature ha certificato come il buco dell’ozono si stia richiudendo grazie alla riduzione dei Cfc, i gas clorofluorocarburi usati anche come refrigeranti nei vecchi frigoriferi, messi al bando nel 1987.

Già lo sapevamo che le cose stavano andando bene, ma in effetti mancava una conferma scientifica che il recupero dello strato che protegge la Terra dalle radiazioni ultraviolette fosse direttamente collegato al divieto dei Cfc. La ricerca svolta da un team del MIT, il Massachusetts Institute of Technology, guidato da Susan Solomon e Peidong Wang, ha dimostrato con un alto grado di certezza che il miglioramento è una conseguenza diretta delle politiche stabilite 38 anni fa. E se questa tendenza proseguirà, entro il 2035 il buco dell’ozono potrebbe chiudersi del tutto.

Era il 1985

Nel 1985 un gruppo di scienziati della British Antarctic Survey scoprì un buco nell’ozonosfera che si apriva in corrispondenza dell’Antartide durante la primavera australe, da settembre a dicembre: lo strato di ozono, una molecola composta da tre atomi di ossigeno, si stava assottigliando in modo preoccupante. È vero che nella troposfera, dove abitiamo noi, l’ozono è a tutti gli effetti una sostanza inquinante e indesiderata. Ma lassù, fra i 10 e i 50 chilometri di quota, fa da scudo alle frequenze più dannose della radiazione ultravioletta. La sua perdita avrebbe portato a un aumento di melanomi, danni oculari e compromissione del sistema immunitario, per non parlare degli effetti negativi sugli ecosistemi e l’agricoltura. La colpa era dei clorofluorocarburi, una sostanza chimica che veniva diffusamente usata come refrigerante, isolante oltre che come propellente, e che combinandosi con l’ozono lo distruggeva, riducendo lo spessore di questo filtro naturale alle radiazioni solari.

La reazione fu rapida: nel 1987, sotto l’egida delle Nazioni Unite, venne siglato il Protocollo di Montreal, un accordo che prevedeva la progressiva eliminazione dei Cfc utilizzati in frigoriferi, condizionatori e bombolette spray. Inizialmente sottoscritto da 90 nazioni, oggi include 197 Paesi, dimostrando l’efficacia della cooperazione internazionale. Fu il primo tentativo di una governance globale del clima, destinato a sfociare poi nelle Cop, le Conferenze delle parti delle Nazioni Unite, che hanno ottenuto successi decisamente minori. Ahinoi.

Un successo netto

Questo invece è stato un successo netto. I ricercatori sono riusciti a isolare l’influenza specifica della riduzione dei Cfc sul recupero dell’ozono con un approccio innovativo, mutuato dagli studi sul cambiamento climatico e chiamato fingerprinting. Questa tecnica, che nel 2021 è valsa il premio Nobel per la Fisica a Klaus Hasselmann, permette di distinguere l’impatto di fattori specifici dal “rumore” di altri fenomeni naturali. Inoltre, sullo spessore dello strato di ozono influiscono anche diverse variabili ambientali, come la stagionalità, il vortice polare, e fenomeni meteo come El Niño e La Niña.

Attraverso numerose simulazioni dell’atmosfera, confrontate poi con le osservazioni satellitari del buco dell’ozono sull’Antartide dal 2005 ad oggi, gli scienziati hanno concluso con un intervallo di confidenza del 95% che il recupero è direttamente attribuibile alla diminuzione dei composti dannosi per l’ozono. Secondo le previsioni, se questo trend positivo continuerà, entro il 2035 potremmo assistere a un anno senza la comparsa del buco dell’ozono sull’Antartide. Un traguardo che, come sottolinea Susan Solomon, molti di noi potrebbero vedere.

Due film diversi

Ovviamente, sappiamo bene che questo successo non è stato replicato per quanto riguarda un altro problema globale che ci riguarda: la crisi climatica provocata dalle emissioni di gas serra. Provarci, ci abbiamo provato: già nel 1997, con la firma del Protocollo di Kyoto, la comunità internazionale si prefissò un obiettivo simile a Montreal. Ma le cose non sono andate allo stesso modo. Un conto è cancellare le emissioni dei Cfc, che servivano solo a far funzionare frigoriferi, condizionatori e bombolette spray, e si potevano sostituire in modo relativamente facile. Un altro diminuire le emissioni dei gas serra che derivano dall’utilizzo dei combustibili fossili, cambiando il sistema di funzionamento di tutte le automobili, tutti gli aerei, tutte le navi e tutte le fabbriche del mondo.

È comprensibile che ci siano state resistenze potentissime da parte degli interessi economici che guadagnavano (e guadagnano) dal sistema fossile. Lo è meno il fatto che quando gli scienziati misero in guardia il mondo sugli effetti collaterali dei Cfc – una reazione chimica ai piani alti della stratosfera – tutti ci hanno subito creduto, mentre ora che ci mettono  in guardia contro il riscaldamento del pianeta – per effetto di un’altra, inoppugnabile, reazione fisica – c’è qualcuno che non ci crede.

CONDIVIDI

Continua a leggere