Non è un bel 5 giugno. Non è una bella Giornata dell’ambiente. Almeno così appare il mondo visto dal nostro osservatorio di abitanti della parte più ricca del pianeta. Per più di due secoli abbiamo accumulato conoscenza, organizzazione industriale, brevetti, capitali pensando di riuscire a vivere meglio facendo stare meglio anche figli e nipoti. E potremmo ancora continuare a farlo. Ma non lo facciamo. Ignoriamo la comunità scientifica che continua a dirci di non bruciare combustibili fossili per non bruciare anche gli ecosistemi da cui dipendiamo. Ignoriamo la generazione che ha vissuto il dramma del fascismo e della guerra che ne è stata conseguenza. Il risultato è il doppio squilibrio in cui siamo immersi: un inquinamento che non riusciamo ad arginare, conflitti che si espandono.
Tuttavia il mondo è sempre meno Occidente e sempre più economia diffusa. La nuova rivoluzione industriale basata sulle energie rinnovabili, sull’efficienza, sul recupero della materia si fa strada dove trova spazio. Se un presidente negazionista sbarra una porta, il flusso va a vitalizzare un’altra area. Lo certifica proprio oggi l’Agenzia internazionale dell’energia. Che – è bene ricordarlo – non è una filiale di Greenpeace. L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea nella sigla inglese) nasce nel 1974 dopo la crisi energetica che aveva fatto schizzare alle stelle il prezzo del petrolio. Quindi nasce dal tentativo di stabilizzare quell’economia, l’economia basata sui fossili.
Oggi è proprio quell’Agenzia, la massima autorità mondiale in campo energetico, a dirci che il sorpasso verde è già realtà. Nel 2025 per ogni dollaro speso nei combustibili fossili, ce ne saranno due destinati alle tecnologie pulite. Un ribaltamento radicale di priorità rispetto al passato, che porta il totale degli investimenti energetici globali a quota 3.300 miliardi di dollari, un nuovo record assoluto.
Boom delle rinnovabili, in testa il solare
Di questi, ben 2.200 miliardi saranno destinati a solare, eolico, batterie, reti elettriche intelligenti, efficienza energetica e nuovi vettori come l’idrogeno. I fossili, petrolio, gas e carbone, si fermeranno invece a circa 1.000 miliardi.
Il protagonista indiscusso di questa ondata di investimenti è il fotovoltaico. Nel solo 2025, si prevede che attirerà 500 miliardi di dollari, più di qualsiasi altra tecnologia. A trainare il settore è il crollo dei costi: oggi produrre elettricità con il sole è in molti casi più conveniente che farlo con carbone o gas. Aumentano anche gli investimenti in sistemi di accumulo: le batterie supereranno i 66 miliardi di dollari, rendendo sempre più stabile e flessibile la rete elettrica.
Dieci anni fa, gli investimenti nei combustibili fossili erano superiori del 30% rispetto a quelli per produrre, trasportare e immagazzinare energia elettrica. Quest’anno, si prevede che gli investimenti nell’elettricità supereranno di circa il 50% la spesa totale per immettere sul mercato petrolio, gas naturale e carbone.
Fossili in discesa, ma ancora troppo forti
Nonostante il calo, il settore dei combustibili fossili continua a drenare ingenti risorse. Nel 2025, secondo l’Iea, gli investimenti nel petrolio e nel gas diminuiranno del 6% rispetto all’anno precedente. Un segnale importante, ma ancora insufficiente: la stessa agenzia avverte che per raggiungere gli obiettivi climatici fissati dall’Accordo di Parigi, la spesa per i fossili dovrebbe calare molto più rapidamente.
Emblematico è il caso delle compagnie petrolifere americane, più reattive alle fluttuazioni del mercato: nel prossimo anno, i loro investimenti potrebbero ridursi del 10%: negli Usa il mercato conta più di Trump. Ma molte altre grandi aziende, soprattutto nei Paesi del Golfo e in Asia, continuano a puntare sulla produzione fossile, anche in assenza di reali prospettive di domanda a lungo termine.
Un divario che preoccupa: chi resta indietro
Il boom delle rinnovabili, tuttavia, non è equamente distribuito. Circa il 90% degli investimenti in tecnologie pulite si concentra in Cina, Unione Europea e Stati Uniti. La Cina, in particolare, rappresenta da sola quasi un terzo del totale globale, spende quasi quanto l’Unione Europea e gli Stati Uniti messi insieme. Dunque c’è un gruppo di Paesi che guidano la volata e Pechino è al primo posto.
E poi c’è l’Africa, che ospita il 20% della popolazione mondiale e riceve appena il 2% degli investimenti in energia pulita. La situazione è simile in molte economie emergenti, dove la mancanza di capitali, infrastrutture adeguate e stabilità normativa scoraggia gli investitori. Per ora, perché prima o poi anche quei mercati si svilupperanno e la battaglia politica globale li riguarda. A fronte del passo indietro dell’America di Trump la Cina avanza, rende più fitta la sua rete di collaborazioni economiche e politiche, getta le premesse per svolgere in questo secolo il ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto nel ventesimo secolo.
Ma la partita è aperta. Soprattutto per l’Europa che, per la dimensione del mercato, per la capacità industriale e per l’appeal globale del suo modello di vita, potrebbe avere un ruolo fondamentale nel dare un segno di giustizia sociale alla transizione ecologica e rafforzare il modello delle democrazie rappresentative. Converrebbe a tutti, anche ai non europei.