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Punto a Capuo

Dietro la tregua

26.11.2023

La tregua è per definizione e per destino, temporanea. Poi riprende la guerra. Possiamo sperare che la tregua si ripeta, che si allunghi, che soppianti il conflitto tra Israele e Hamas? Non credo. A cinquanta ostaggi liberati a ogni tregua, ce ne vorrebbero almeno altre quattro per restituire tutti i sequestrati alla libertà. Ed è logico supporre che, quando si arriverà agli ostaggi che vestono una divisa, le trattative diventeranno più complicate, le pretese più forti (è curioso vedere come Hamas per prima abbia accettato, adesso che faceva comodo negli scambi, la ratio che una vita israeliana vale quella di tre palestinesi).

Chi sta vincendo, questa fase silenziosa del conflitto? Intanto tutti noi: ogni vita salvata è una vittoria. Poi gli Stati Uniti, e Biden. Sono riusciti a conciliare due imprese contrastanti: la difesa di Israele, e il non inimicarsi il mondo arabo e musulmano. È stato più facile contenere l’allargamento del conflitto: l’Iran non vuole giocarsi tutto e si limita mandare avanti i suoi comprimari, i regimi arabi moderati hanno fatto voce grossa e basta. E gli USA sono riusciti a frenare Netanyahu, a imporre prima corridoi umanitari, poi la tregua, restituendosi al ruolo di mediatore supremo, di grande poliziotto buono (non bastasse c’è la flotta, a fare il poliziotto cattivo). Il secondo vincitore – stiamo parlando di una battaglia psicologica e di immagine, in una fase della guerra – è Hamas.

In qualche modo è riuscito a normalizzare l’orrore del 7 ottobre, che già in tanti avevano dimenticato, e a proporsi come un gruppo affidabile in un negoziato, che consegna ostaggi sani e salvi, gli sgozzamenti e le esecuzioni di civili inermi sono il passato, e il prezzo pagato per riportare la questione palestinese nell’agenda del mondo. Israele, dietro la pressione contemporanea degli Usa e delle famiglie dei rapiti, deve rallentare nella corsa all’obbiettivo massimo e minimo insieme: distruggere Hamas. E quando riprenderà a provarci agli occhi del mondo apparirà come quelli che vogliono la guerra, resa ancora più difficile dal fatto che i civili, nel sud della Striscia di Gaza, non hanno vie di scampo: è l’imboscata umanitaria tesa da Hamas.

Prepariamoci a giorni difficili. Chi ama Israele sa che non potrà fermarsi se non dopo, almeno, aver preso i cervelli del 7 di ottobre, Yaya Sinwar e Mohammed Deif. Chi ama i palestinesi sa che la dirigenza interna di Hamas si gioca tutto e, oltre ai tunnel ha solo due armi: gli ultimi ostaggi e lo scudo dei suoi stessi civili. Chi ama la pace non può che constatare che è davvero lontana, e che è più facile immaginarla sulle macerie di Gaza, dove qualcuno si chiede se davvero sia stato saggio fare il 7 ottobre, che non in Cisgiordania. Non bastassero le bandiere di Hamas e della Jihad che hanno accolto i detenuti palestinesi liberati, basta l’immagine dei telefonini dei palestinesi che riprendono, a Tulkarem, i due palestinesi uccisi e appesi per i piedi ai lampioni della luce perché ritenuti collaborazionisti. E’ la foto di un odio senza tregua.

 

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