Fare pace con l’ambiente. L’espressione era usata fino a qualche anno fa, oggi entrambi i termini sono caduti in disgrazia. La connessione tra i due concetti resta viva nello Stato più piccolo del mondo, custodita dalle parole di Francesco e Benedetto XIV, e in un’area culturale che fatica a definirsi. Ma le parole pace e ambiente sono minate da un senso di rassegnazione montante, come se appartenessero a un’altra epoca. Come se dovessimo rassegnarci a un’idea di guerra che fagocita emozioni e soldi, prosciugando le alternative.
È un’onda alimentata dal travisamento delle parole, da un inganno verbale che va dalle fake news che negano il cambiamento climatico all’operazione “ramoscello d’ulivo” lanciata da Erdogan per massacrare i curdi. E quindi è dalle parole che si può ripartire.
Nel caso del rafforzamento della difesa comune dell’Europa la parola chiave è “comune”. Creare un esercito comune che convive con forze armate statali è lo strumento che permetterebbe di aumentare l’efficienza della difesa senza compromettere le risorse che garantiscono le ragioni della difesa (welfare, rispetto dei diritti, tutela dell’ambiente, protezione del clima). Una decisione politica sparita dai radar della politica.
E poi c’è l’imbarazzante reazione all’ondata di calore che ha sbilanciato l’Europa già alla fine di giugno, lasciandola con un quadro organizzativo, legislativo, finanziario del tutto inadeguato alle necessità. La decenza logica avrebbe imposto la messa in discussione dell’attacco al Green Deal (la chiave della difesa climatica) basato su conti taroccati dal mancato calcolo dei costi dell’inazione climatica. Questa decenza non si è manifestata.
Mentre la Tour Eiffel chiudeva assieme a duemila scuole francesi, i lavoratori morivano di caldo nei luoghi più esposti (facendo passare quest’espressione dalla metafora alla descrizione oggettiva dei fatti), nella metropolitana di Londra apparivano i cartelli che invitavano a portare con sé una bottiglietta d’acqua, il governo italiano si è limitato ad adottare misure settoriali e temporanee, prive di uno sguardo d’assieme e di una prospettiva.
Il “Piano Caldo 2025” è solo un elenco di bollettini quotidiani per le città, monitoraggio della mortalità e degli accessi al pronto soccorso, numero verde per chi è più disperato. Poi c’è il protocollo per i lavoratori esposti al caldo che certo ha visto una significativa convergenza tra imprese e sindacati, ma che circoscrive l’impegno all’”adozione di misure di contenimento dei rischi lavorativi legati alle emergenze climatiche negli ambienti di lavoro”. Il punto è che non sono emergenze. Usare parole sbagliate può portare a conclusioni sbagliate.
Per trovare le parole giuste bisogna uscire dall’Italia ed entrare nel palazzo delle Nazioni Unite. È stato il segretario generale dell’Onu Antonio Gutteres, citando il fatto che ormai in estate per trovare lo zero termico sulle Alpi sempre più spesso bisogna salire più alto della cima del Monte Bianco, a dire che “questo caldo è la nuova normalità”.
E Guterres lo ha detto perché legge i rapporti dei climatologi che il governo italiano non legge, o fa finta di non leggere. È questo il dato di fatto da cui partire. La guerra contro l’ambiente non si può vincere perché l’ambiente siamo noi e bombardando l’equilibrio degli ecosistemi ci autoaffondiamo. Cominciando dai più poveri, non dai più ricchi. Nell’elenco delle vittime del caldo più che abitanti della ztl si trovano manovali, lavoratori agricoli, anziani che non si possono permettere l’aria condizionata. La crisi climatica aumenta le disuguaglianze, le rende più drammatiche: esattamente il contrario di quello che sostiene la campagna lanciata dalle destre europee per fermare il Green Deal.
“La salute prima di tutto” è il motto che in questi giorni trova un largo consenso, dall’intesa sindacati – imprese fino all’ordinanza del presidente del Veneto Luca Zaia sui lavoratori a rischio colpo di calore. Difendersi dal caldo è un diritto. Non può essere limitato ai giorni della cosiddetta emergenza perché la macchina che produce un caldo anomalo funziona per 365 giorni all’anno e colpisce soprattutto i più deboli. Si tratta di costruire un modello sociale e produttivo che tenga assieme la difesa del clima e quella delle fasce sociali più deboli.