La comunità di patriarchi verdi si allarga. Il ministero dell’Agricoltura ha annunciato l’ingresso di 95 nuovi alberi monumentali nell’elenco ufficiale, portando il totale nazionale a 4.749. Sono alberi che non si limitano a fare ombra: offrono rifugio, bellezza, continuità. E, in qualche caso, record.
Prendete l’abete bianco di Paularo, in provincia di Udine: con i suoi 53 metri di altezza, è oggi l’albero autoctono più alto d’Italia. Un colosso silenzioso che sfiora il cielo e racconta, con la sua sola presenza, cosa significhi vivere a lungo in un mondo che cambia troppo in fretta. Non è solo una questione di dimensioni, però. Ogni nuovo albero ammesso nell’elenco nazionale ha una sua particolarità: valore ecologico, storico, culturale, oppure un legame profondo con la comunità che lo circonda.
L’ippocastano piantato al tempo dell’unificazione dell’Italia
C’è, ad esempio, un doppio filare di 163 robinie a Castelnuovo Don Bosco, in Piemonte: una galleria vegetale lunga quasi mezzo chilometro, che sembra uscita da un film di Wes Anderson ma che invece si snoda tra cascine e vigne del Monferrato. C’è un noce del Caucaso che da oltre un secolo osserva con discrezione la vita di una villa torinese. E un ippocastano che, da 150 anni, accompagna le giornate dei frati cappuccini di Prepotto, nel Friuli orientale: è nato al tempo dell’unificazione dell’Italia.
Ma questi sono solo gli ultimi arrivati in un club esclusivo, già ricco di personalità straordinarie. Come il Castagno dei Cento Cavalli a Sant’Alfio, alle pendici dell’Etna, che si dice abbia ospitato sotto la sua chioma una regina e il suo seguito di cento cavalieri durante un temporale. Non si sa se la leggenda sia vera, ma quel castagno ha più di 2.000 anni e una circonferenza che sfida la credibilità fotografica.
Oppure l’Olivastro di Luras, in Gallura: un sopravvissuto dell’Età del Bronzo, che si stima abbia tra i 3.000 e i 4.000 anni, un saggio millenario che guarda le colline sarde con indifferenza serafica, incurante delle mode e delle elezioni. E ancora, la Quercia delle Streghe di Capannori, con i suoi rami bassi e allungati come braccia pronte ad accogliere danze notturne e racconti d’altri tempi.
Tutti questi alberi sono protetti da una legge del 2013: abbatterne o danneggiarne uno può costare fino a 100.000 euro. Una tutela severa, e giustamente. Perché questi alberi non sono semplici elementi del paesaggio: sono archivi viventi, depositari di biodiversità, memoria e cultura. Sono anche fari ecologici in un’epoca in cui il legame tra uomo e natura si sta pericolosamente assottigliando.
A promuoverne la conoscenza e la salvaguardia ci pensa anche il Registro degli Alberi Monumentali Italiani, con il contributo di volontari, botanici e amministrazioni locali. Ogni scheda, ogni misurazione, ogni storia raccolta è un piccolo atto di resistenza contro la distrazione cronica del nostro tempo. Dietro ogni tronco cavo o chioma smisurata, c’è un’Italia che non vuole dimenticare. Per guardare lontano, bisogna prima restare ben piantati a terra.