“I dazi Usa sono un errore, non una catastrofe”. Con questa frase Giorgia Meloni ha espresso una valutazione ottimistica, in netto contrasto con quella dei principali governi europei. Ma veramente “tutto andrà bene”, come si diceva ai tempi del Covid per rincuorarsi mentre il virus paralizzava il mondo, e come ripete oggi la presidente del Consiglio mentre i dazi rischiano di paralizzare i commerci?
Le catastrofi possono essere fulminee, ma più spesso somigliano a una valanga che acquista volume e forza nel suo percorso. Secondo molti analisti, compresi i migliori economisti americani e i top manager di parecchie multinazionali, è questa la situazione creata dall’azzardo di Trump: il neoprotezionismo Usa – prevedono – indebolirà l’economia globale danneggiando in particolare quella statunitense e consegnando alla Cina uno spazio economico, politico e diplomatico che Pechino non avrebbe mai immaginato di conquistare in così breve tempo.
Sugli effetti economici e sociali di questi dazi è stato scritto molto: il tracollo delle Borse, gli appelli a cambiare strada dei massimi dirigenti dei grandi gruppi economici statunitensi, la preoccupazione che monta nelle case americane. Poco però è stato scritto sugli aspetti ambientali. Una lacuna di analisi che ha una ragione specifica. Il punto di vista prevalente, in Occidente, è che c’è un prima e un dopo. C’è prima un’economia solida da costruire; poi i rivoli secondari che da questa economia derivano possono essere investiti nelle politiche ambientali. In Cina la pensano diversamente: hanno costruito un’economia che sta per diventare la prima economia globale fondendo necessità ambientale e necessità economica per trasformarle in opportunità di crescita: non c’è un prima e un poi, c’è l’insieme.
Pechino non è spinta da motivazioni ideologiche né tantomeno etiche: è mossa dal pragmatismo. Continua a usare metà del carbone prodotto nel mondo perché non vuole rallentare il passo durante la transizione, ma la transizione la fa davvero, non a chiacchiere. Ha conquistato la leadership delle energie rinnovabili, della mobilità elettrica, dei materiali critici. Si è posta obiettivi climatici più cauti di quelli di quasi tutti gli altri Paesi ma puntualmente, scadenza dopo scadenza, li batte perché ha scoperto che conviene.
Se proviamo ad applicare questo modello unitario di pensiero eco (nomico) – eco (logico) ai dazi di Trump, vediamo che sul tabellone esibito in mondovisione, sotto quei calcoli ridicolizzati da tutti gli esperti, non c’è solo un errore. C’è la certezza di una brusca frenata della transizione ecologica.
L’imposizione di tariffe sulle importazioni di componenti chiave per le tecnologie pulite, come pannelli solari e batterie al litio, aumenta i costi per i produttori statunitensi. Dunque, rallenta l’adozione di soluzioni energetiche sostenibili e potrebbe ridurre l’innovazione nel settore. Ad esempio, interrompere la catena degli approvvigionamenti delle componenti delle auto rende più difficile e costoso produrre i nuovi veicoli, in media meno inquinanti di quelli in circolazione. E la Cina potrebbe rispondere limitando l’esportazione di materiali essenziali per la transizione energetica.
Come ha sottolineato il Financial Times, queste politiche commerciali protezionistiche minano la cooperazione internazionale necessaria per affrontare il cambiamento climatico. La presidente della Cop30 che si terrà a novembre in Brasile, Ana Toni, ha avvertito che una guerra commerciale globale potrebbe limitare l’accesso alle tecnologie necessarie per combattere il cambiamento climatico, ostacolando gli sforzi collettivi in questa direzione.
Del resto, tutto ciò non può preoccupare Trump che ha piazzato lobbisti dei combustibili fossili in ruoli chiave dell’Agenzia per la Protezione Ambientale. Ha sospeso molte norme di tutela ambientale per dare più spazio a petrolio e gas. Ha deciso di uscire dagli Accordi di Parigi sul clima. Ha incentivato l’espansione delle perforazioni petrolifere e delle attività minerarie su terreni pubblici, riducendo le protezioni ambientali. Ha cacciato gli scienziati dissidenti , imposto il bavaglio al web nei siti federali e tagliato i fondi per il clima.
Tutto ciò può essere considerato un semplice errore? Somiglia più a una forte spinta verso uno scenario catastrofico. Fortunatamente in Europa e nel mondo non tutti apprezzano il nuovo stile della Casa Bianca come il governo italiano. E si stanno attrezzando: un sostegno alla transizione ecologica sta emergendo in modo diffuso. Ecco alcuni degli elementi chiave.
Il Clean Trade and Investment Partnership tra Sudafrica e UE può diventare un nuovo modello di investimento europeo per i minerali critici. Il vertice UE-India ha delineato i contorni di un nuovo accordo di libero scambio, anche nel settore cleantech. La recente svolta della Germania verso il finanziamento in deficit consentirà nuovi investimenti nel clima. Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha lanciato Nova Industria Brasil per promuovere l’industrializzazione verde. La presidente messicana Claudia Sheinbaum ha annunciato e finanziato il Plan Mexico per investimenti strategici. Cina, Corea del Sud e Giappone hanno concordato di rispondere congiuntamente a Trump
Inoltre, secondo S&P Global, il picco della domanda per carbone, petrolio e gas entro il 2050 è ormai “probabilmente garantito”. E secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, le economie emergenti e in via di sviluppo rappresenteranno oltre la metà del mercato globale per fotovoltaico, eolico e stoccaggio a batterie entro il 2030.
Dunque tutto lascia pensare che la transizione energetica ed ecologica sia ormai un processo irreversibile. Potrebbe però rallentare e il baricentro potrebbe spostarsi più nettamente in Asia. Uno scenario del genere, agevolato da Trump, somiglia molto a una catastrofe per l’Occidente. Probabilmente l’Europa ha ancora buone carte da giocare per restare in partita. A condizione di non far finta che il pericolo non esista.