17 Ottobre 2024
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Business, Cronaca, Economia, Sostenibilità

Il “fast fashion” piega il lusso nostrano

Ragazzo cinese balla davanti a una fabbrica.

I marchi a basso costo, principalmente cinesi, premono sulle aziende italiane. Il declino dell’industria tessile di Prato procede inversamente rispetto all’avanzata del “fast fashion”. Da maggio 2023, il calo nel fatturato del settore è stato del 25%. Guerre e particolare attenzione giovanile alla sostenibilità giocano un ruolo fondamentale.

Il distretto tessile più grande d’Europa è a Prato, con oltre 7mila industrie e più di 130mila posti di lavoro. Una tradizione storica e radicata quella della provincia toscana, ma che sta attraversando un periodo di grande crisi con molte aziende che rischiano di chiudere e altre che lo hanno già fatto. La produzione è calata notevolmente e se il settore artigianale era già in affanno, ora anche quello industriale sta attraversando un periodo magro, sia relativamente alla moda di lusso che a marchi meno costosi. A provocare questa situazione intervengono molteplici fattori, tra cui il calo delle esportazioni dovuto alle guerre, ma anche un cambiamento delle abitudini di chi compra.

Il declino dell’industria tessile di Prato procede in maniera inversamente proporzionale all’avanzata del fast fashion. I marchi a basso costo, principalmente cinesi, esercitano una pressione sulle aziende locali grazie a costi di produzione incredibilmente bassi (resi possibili da condizioni di lavoro discutibili). L’importazione di tessuti e filati dalla Cina, di qualità inferiore, ma anche notevolmente più economici, ha minato la competitività della produzione del distretto sul mercato. Ma c’è anche un altro cambiamento nelle abitudini di consumo che mina alla base le aziende pratesi. I giovani sono sempre più attenti alla sostenibilità e in questo frangente è molto popolare l’acquisto di capi usati e vintage: ne consegue che sono necessarie minori quantità di tessuto per crearne di nuovi.

Va considerata, inoltre, l’instabilità economica globale tra i fattori determinanti la crisi. Alcune economie straniere fiorenti nel recente passato ora sono indebolite e i rapporti commerciali con alcuni Paesi (ad esempio la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina) sono stati interrotti. Anche la Cina, che giocava un ruolo fondamentale sia nell’import che nell’export, non solo è entrata in concorrenza con l’Italia (come abbiamo visto) nella produzione tessile, ma allo stesso tempo ha anche ridimensionato gli acquisti di manufatti. La conseguenza è un crollo delle esportazioni, da sempre fonte principale di introito per il settore tessile italiano.
I dati raccolti dall’Istat parlano chiaro: tra gennaio e luglio 2024 la produzione è calata del 10,8% rispetto al medesimo lasso temporale dell’anno precedente. Se si allarga il quadro andando a ritroso fino a maggio 2023, si nota che il calo è stato del 25%. Il fatturato, raccontano gli imprenditori, è diminuito fino anche al 90%, e nel frattempo i magazzini sono colmi di invenduti dell’anno precedente. Molte aziende sono rimaste chiuse per un mese intero, dal 2 agosto al 2 settembre, cosa che non accadeva da anni, approfittando delle ferie per compensare l’assenza di ordini.

Negli ultimi mesi sono tante le aziende che hanno chiuso i battenti perché non più in grado di sostenere i costi per affitti o bollette e sono aumentate le richieste di cassa integrazione per i dipendenti, che già nel dicembre 2023 erano l’8% del totale. Quello che fino a poco tempo fa era un polo industriale fiorente, ora si è trasformato in un deserto di capannoni vuoti.

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