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Il palco dei social, spazio fertile per diffondere l’odio

02.10.2023

Hate Speech: le parole contano molto nella comunicazione sui social, secondo il parere accademico. Le reti social sono preparate per amplificare gli effetti della comunicazione spingendo anche sull’ignoranza, che spesso vince favorita dagli algoritmi. Le censure non aiutano. Serve costruire consapevolezza.

“Le parole sono importanti…” recitava in un film Nanni Moretti, ed è proprio questo che abbiamo cercato di capire durante l’intervista al professore di Linguistica e Italian Studies presso l’Università di Reading, in Gran Bretagna, Federico Faloppa. Quanto le parole possono incidere nella vita di una persona. Che peso hanno, quindi, le parole, possiamo esprimerci sui social media come parleremmo in un bar davanti ad un caffè parlando ad un nostro amico?

La linguista Vera Gheno usa una metafora felicissima quando parla di comunicazione mediata dai social: quella del balcone.
Lei dice che i social media, certo sono uno spazio nostro individuale grazie ai contratti stipulati con il provider Facebook, Tik tok, Instagram, ma non sono uno spazio intimo come essere nella camera da letto di una casa, e quindi se ci denudiamo e cantiamo delle sconcezze al massimo siamo ascoltati da chi vive con noi.
Sui social media è come se fossimo sul balcone di casa, certo è ancora casa nostra, ma è uno spazio privato che ci espone al pubblico. Allora quando siamo sul balcone di casa perché non ci denudiamo? Perché chi passa lì davanti, e noi possiamo prevedere chi passerà, potrebbe essere infastidito da questo atteggiamento, potrebbe anche chiamare i vigili. I social media sono il balcone della nostra comunicazione.

Il privato che ci espone al pubblico, quindi, i discorsi d’odio non riguardano solo le cosiddette Centrali dell’odio che a livello internazionale per propagandare idee nazifasciste, manipolano il discorso pubblico diffondendo disinformazione, ma anche l’ironia può essere offensiva, pensiamo ai Meme.
Il giornalismo, poi, ha veicolato l’uso di parole che possono portare discriminazioni, ad esempio l’uso della nazionalità nei titoli, albanese, marocchino, africano perché ci si aspetta che accompagni un’azione negativa.

Certamente i social media hanno quantitativamente moltiplicato la diffusione degli hate speech, anche se questi non nascono con i social media. Pensiamo al linguaggio legato alle discriminazioni razziali, il discorso pubblico e politico conteneva già espressioni di incitamento all’odio verso alcune categorie, lo dimostra la storia del ‘900 che ha dato il via anche all’olocausto. I social media ci danno una piattaforma che mette in evidenza alcuni elementi, per esempio, una mancanza di empatia tra chi lo diffonde ed il bersaglio.

I social hanno un effetto amplificatore, i loro stessi algoritmi, ci dicono gli studi, funzionano per diffondere i discorsi d’odio perché hanno più like, rispetto ai discorsi positivi. Le piattaforme oggi sono obbligate, grazie anche al lavoro del Consiglio d’Europa, a fare i conti con questa situazione, ad affrontarla cercando di arginarla e prevenirla. Moltissimi utenti non sanno usare il linguaggio giusto e fanno naturalmente danni, ed è questa la zona su cui noi dobbiamo lavorare. C’è bisogno di formare le persone, renderle consapevoli di quanto le parole siano pesanti sui social media proprio per il potere dirompente che essi hanno nella nostra vita. Non bisogna, secondo me, adottare delle censure o degli strumenti punitivi, ma cercare di costruire una larga consapevolezza di quali parole possano far male, e non soltanto le parole, ma anche le modalità con cui vengono espresse. Le parole hanno un peso, magari a noi sembra di no, ma per chi le subisce sono macigni. L’educazione e la formazione giocano un ruolo importantissimo. La consapevolezza, la responsabilità, ricordiamoci che alcune parole hanno anche dei risvolti penali, ad esempio l’incitamento all’odio, le minacce.
Per cercare di sopperire a questa mancanza di consapevolezza degli utenti, il Prof. Faloppa, ha scritto diversi libri tra cui #odio manuale di resistenza alle parole, dove cerca analiticamente di fare il punto sul linguaggio dell’odio.

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