Nel nostro Paese si dovrebbero rivedere profondamente sia le scelte che le priorità di realizzazione delle infrastrutture, le quali non dovrebbero essere considerate solo in base alle disponibilità delle risorse. La disponibilità delle risorse nell’orizzonte post PNRR e in considerazione degli impegni assunti per il riarmo e per i vincoli di bilancio, torneranno ad essere ridotte e questo dovrebbe aumentare la responsabilità nella scelta delle priorità di intervento.
Nella mobilità è fondamentale la transizione dalla mobilità individuale alla mobilità collettiva su ferro e gomma. Per la situazione reale del Paese nessuna mobilità “morbida”, “dolce” o comunque aggettivata che sia intesa e operata come individuale potrà risolvere l’immobilità delle aree metropolitane.
L’errore dell’Italia
Negli altri Paesi europei, tranne alcune eccezioni dove la bicicletta aveva una tradizione aiutata dalla orografia del terreno e ha anticipato i sistemi di mobilità collettiva su ferro e gomma, le “piste ciclabili” sono arrivate molto dopo la realizzazione di reti metropolitane estese e servizi bus efficienti a rappresentare una ulteriore possibilità di scelta.
In Italia compiendo un grave errore si è pensato e teorizzato che le piste ciclabili potessero contribuire a risolvere l’assenza di servizi pubblici collettivi su ferro e gomma e perfino l’inquinamento.
Si è proceduto a realizzare piste ciclabili anche dove l’orografia del terreno impediva o rendeva difficile l’uso della bicicletta, a meno di non essere allenati e in ottima salute, anche per il solo utilizzo ludico.
Un furore dogmatico
Un furore dogmatico e ideologico che ha fatto perdere risorse finanziarie per i sistemi collettivi di trasporto e per aumentare la loro accessibilità.
Un furore che ha portato a realizzare “piste ciclabili” ovunque non facendo un buon servizio all’uso della bicicletta, anzi accrescendo una corrente contraria da parte dei cittadini che vedevano piste inutilizzate, marciapiedi per pedoni e strade per automobilisti e servizi pubblici su gomma ridotte in modo improprio.
Se la prima regola è: prima le metro, le ferrovie e i bus per trasporto collettivo e poi le piste ciclabili, la seconda regola è che le piste ciclabili vanno realizzate dove sono utili, dove possono avere una funzione e finanche una “missione”.
Ci sono piste ciclabili in giro per il Paese, belle e utili per tutte si cita la Pista ciclopedonale denominata anche “ Via verde della Costa dei trabocchi”, 42 km una decina di comuni attraversati e decine di Trabocchi visti sul mare. Quella pista è una tra le più iconiche e la progettazione è stata guidata dal vecchio tracciato ferroviario.
Realizzare una pista ciclabile in città è molto più complicato e progetti rabberciati, ispirati dal furore, tanto per fare numeri di chilometri realizzati, producono un contraccolpo negativo sulla stessa idea di ciclabilità.
Roma non è la Bassa, dell’esistenza dei sette colli si sapeva come dei saliscendi collinari dell’Agro e soprattutto si doveva conoscere l’estensione del territorio comunale. Sarebbero state più utili piste di quartiere che avrebbero abituato all’uso della bici e non piste passanti che rimangono in toto o in parte deserte.
Una scorciatoia che non porta a nulla
Pensare di passare dai tram di 70 anni fa, ancora in eroico esercizio, al MAAS (Mobility as a Service), pensare di bruciare le tappe partendo da aspetti della gestione e dall’integrazione di quello che non c’è, non è utopico ma una suggestione per una scorciatoia che non porta a nulla e non fa né evolvere né sviluppare.
Se dalla crisi si cogliesse l’occasione per affermare una prassi concreta e nuova, la prima “evoluzione” dovrebbe riguardare i mezzi su ferro, su gomma e quelli non più su ferro come i tram che non hanno bisogno di rotaie e catenaria.
Questa evoluzione deve essere collegata alla trazione elettrica come evoluzione costante e continuativa e non dall’ora X dell’anno Y, dovrà essere un processo monitorato con più steps realizzativi.
L’evoluzione si potrà misurare con il crescere dell’accessibilità sempre più facile e facilitata ai sistemi, per tutte le fasce di età e condizioni di deambulazione, dai bambini agli anziani.
Con l’accessibilità dovrà crescere la sicurezza come porte di banchina per le metro, fermate protette e con tornelli per i tram, capolinea e fermate attrezzati per i bus, tecnologia di videotrasmissione delle informazioni sulle reti.
Spreco da record
Recentemente a Roma un rapporto della Società “Roma servizi per la mobilità” ha dovuto riconoscere, quello che quotidianamente è sotto gli occhi dei cittadini romani, che le piste ciclabili (328 km complessivi) realizzate sono vuote, a fronte di 918 mila biciclette possedute dai romani solo lo 0,03% utilizza le piste, dove sulla rete si hanno appena 630 passaggi giornalieri.
Giornali e siti hanno titolato: “Spreco da record”, “ Quasi vuote e spesso pericolose”, “Flop ciclabili”, “Piste vuote strade intasate”
Il rapporto ha maggior valore come testimone della distanza incolmabile tra i fini che si erano proposti e quelli che la storia ha concretamente fatto realizzare, se si pensa che la stessa Società, qualche anno fa fu la centrale operativa, ispiratrice, sostenitrice, calcolatrice e progettista della cosiddetta rivoluzione in bicicletta patrocinata dall’Amministrazione comunale dell’epoca.
Con i milioni spesi e quelli che si stanno spendendo per il GRAB (Grande Raccordo Anulare Biciclette) si poteva fare altro e di più utile per il sistema dei trasporti collettivi e la vita dei cittadini.
Il sogno “tutti in bici” di piccole elite di sognatori si è trasformato nella vita quotidiana della stragrande maggioranza dei cittadini, in incubo.
E’ venuto il momento di svegliare i sognatori, di procedere ad un ravvedimento razionale e di riprendere con i cittadini un percorso di riforme per l’evoluzione della mobilità collettiva su ferro e su gomma.