11.07.2024
I “job hoppers” sono spesso i Millennials. Hanno esigenze, priorità e obiettivi diversi dalle generazioni precedenti. Ora vanno di moda anche in Italia. Non importa se lo fanno per la ricerca del cosiddetto “work-life balance”, o per il gusto di cambiare. Rimangono comunque un fenomeno poco gradito alle aziende. La storia di Jonathan Javier.
Jonathan Javier è il fondatore di Wonsulting, una startup americana che si occupa di coaching e formazione professionale. Wonsulting all’inizio era un’attività secondaria per Javier, un’idea sviluppata mentre lavorava per Google, dove era stato prima un Operations analyst e dopo un Sales trainer. Prima di entrare in Google, dove è rimasto 18 mesi, aveva iniziato la sua carriera lavorando per 8 mesi in Snapchat. Dopo Google è passato a Cisco, dove gli sono stati offerti un ruolo e uno stipendio migliori. A Cisco è rimasto solo un anno: a causa dei tagli al personale è stato licenziato e da quel momento ha deciso di dedicarsi a pieno alla crescita di Wonsulting. In soli tre anni circa, Javier ha cambiato tre realtà aziendali e quattro ruoli diversi. La sua storia è raccontata in un articolo del New York Times, intitolato “For Younger Workers, Job Hopping Has Lost Its Stigma. Should It?”, dell’agosto 2023. Il fenomeno di cui si parla è quello del “Job Hopping”, la tendenza giovanile, nata in America, a “saltare” da un lavoro a un altro in un arco temporale breve, di uno o due anni, o poco più.
Il job hopper è spesso un Millennial (nati tra anni ’80 e metà anni ’90) o appartiene alla Gen Z (nati tra metà anni ’90 e 2010). Fa parte della popolazione giovane, che, come sempre accade, ha esigenze, priorità e obiettivi diversi dalle generazioni precedenti, anche nel lavoro. In Italia il fenomeno, arrivato con un po’ di ritardo, è diffuso da ormai alcuni anni, e, almeno all’inizio, era circoscritto quasi soltanto al settore del digitale, continuamente in crescita e con ottime opportunità di lavoro. Randstad, società di HR, stima che nel 2021 i job hoppers in Italia erano 900 mila, una cifra in realtà inferiore rispetto a dieci anni prima, quando si raggiungeva il milione. Ma la ricerca tiene conto solo dei «lavoratori dipendenti che hanno cessato il proprio contratto a meno di due anni dalla sua attivazione in maniera volontaria», invece, in generale, l’etichetta di “job hopper” viene attribuita anche a chi si trova a cambiare spesso lavoro involontariamente.
Chi è all’inizio della propria carriera e decide di cambiare spesso lavoro, lo fa per ragioni diverse. Alcune persone decidono di cambiare più volte azienda rimanendo nello stesso ambito professionale perché ritengono che questo faciliti il raggiungimento di posizioni elevate. Altre persone sono attratte dal fattore economico, dunque decidono di lasciare il proprio lavoro con facilità se si prospetta loro un’opportunità finanziariamente migliore. C’è chi lo fa perché è interessato a costruirsi un profilo professionale variegato, flessibile e dinamico: occupando ruoli diversi si apprendono molte mansioni e skills utili. E c’è una buona parte, forse la più consistente oggi, che guarda al proprio benessere personale e sociale, finalizzando lo spostamento da un lavoro a un altro alla ricerca del cosiddetto work-life balance (equilibrio vita-lavoro).
Il fenomeno è più o meno positivo a seconda del punto di vista da cui lo si guarda. Per i recruiters un candidato con molte esperienze diverse è più difficile da valutare e può risultare meno affidabile. Per le aziende, i job hoppers rappresentano una sfida e un costo: Nando Pagnoncelli (presidente di IPSOS) ha di recente analizzato il tema, sottolineando in particolare la necessità delle aziende di attivare delle strategie di reazione di fronte a questa tendenza. Per invogliare i propri dipendenti a rimanere, le aziende devono migliorare il proprio welfare aziendale, innovare e investire su una molteplicità di fattori che prima erano meno considerati, come la formazione, lo smart working e i pacchetti benefit.