27 Giugno 2025
/ 27.06.2025

La legge SalvaMare affonda

La protesta di Marevivo: a tre anni dal voto unanime del Parlamento mancano ancora i decreti attuativi. E quindi resta il paradosso: i pescatori che portano a terra i rifiuti rimasti nelle reti potrebbero essere denunciati invece che ringraziati

C’è un paradosso che galleggia, anzi affonda, tra le onde dei nostri mari. Una legge approvata all’unanimità, salutata come una conquista storica per la tutela del Mediterraneo, è rimasta incagliata negli scogli dell’inazione politica. Si chiama “SalvaMare”, è stata votata nel maggio del 2022 e prometteva mari più puliti e meno plastica. Tre anni dopo, promette ancora. Ma non mantiene.

Dal 2022 a oggi, circa 6.000 tonnellate di rifiuti – in gran parte plastica, ma anche pneumatici, metallo, vetro – sono state ripescate dai pescherecci italiani, soprattutto da quelli a strascico, che da soli ne raccolgono in media una tonnellata l’anno. Un bottino tossico strappato al fondo marino che però, una volta arrivato a riva, si trasforma da problema ambientale a problema amministrativo. Perché mancano le strutture dove conferirlo, e soprattutto manca ciò che dovrebbe esserci da subito: i decreti attuativi. Senza quelli, la legge resta una bottiglia vuota con l’etichetta “ambiente”.

Le reti che non salvano

La trappola burocratica è semplice quanto crudele: chi pesca rifiuti non può smaltirli gratuitamente, ma deve pagarne lo smaltimento di tasca propria. Eppure, dal gennaio 2024, nella Tari – la tassa sui rifiuti pagata dai cittadini – è stato inserito anche il costo per gestire i rifiuti marini. Cioè: si paga per un servizio che non c’è. Sembra una sceneggiatura scritta dal peggior Kafka con una spruzzata di commedia all’italiana.

“L’articolo 2 della legge avrebbe dovuto favorire il recupero e il riciclo dei rifiuti accidentalmente pescati – spiega Rosalba Giugni, presidente di Marevivo – ma oggi non esiste alcuna modalità operativa per farlo”. È come costruire un porto senza pontili.

Un’Italia con il mare alle spalle

Il cortocircuito normativo non si limita ai rifiuti pescati. La SalvaMare – ricorda Marevivo – prevedeva interventi su vari fronti: la gestione delle biomasse vegetali spiaggiate e la disciplina degli impianti di desalinizzazione. Ma anche su questi temi, il silenzio normativo è assordante.

Solo per l’articolo 6, che prevede l’installazione di barriere nei fiumi per intercettare i rifiuti prima che raggiungano il mare, esiste un decreto e c’è anche un piano triennale da 6 milioni di euro. Ma non tutte le autorità locali hanno agito di conseguenza.

La plastica non aspetta

Intanto nel Mediterraneo continuano a essere gettate ogni anno tra le 230.000 e le 760.000 tonnellate di plastica, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. L’Italia, con 8.000 km di coste e il maggior numero di aree marine protette d’Europa, dovrebbe essere in prima fila. Invece, fatica anche solo a portare a terra i rifiuti che il mare restituisce.

A tre anni esatti dall’entrata in vigore della SalvaMare, la Fondazione Marevivo e la Federazione del Mare tornano a chiedere con forza un segnale concreto. “Non possiamo permettere – avvertono – che un provvedimento che avrebbe potuto fare la differenza resti solo una dichiarazione di intenti”. Il mare non è un contenitore senza fondo. Prima o poi restituisce tutto: plastica, incuria e promesse non mantenute. E quando lo farà, non potremo dire che non ci aveva avvisati.

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