18 Dicembre 2024
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Lavoro, Società

La noia lavorativa è virale

Sul lavoro c’è chi si stanca e chi si annoia. Il cambio generazionale altera il concetto di lavoro, che oggi porta solo noia ai più giovani. Una volta andava di moda il burnout, ma nel 2007 nasce il termine “boreout” per descrivere l’insoddisfazione dovuta alla mancanza di stimoli e prospettive. I perché la Gen Z non vuole somigliare ai capi.

C’era una volta il burnout, ossia l’ammalarsi di troppo lavoro, frutto del convincimento di dover dare sempre il massimo e senza sosta fino allo sfinimento. Ora tra i giovani il rischio è quello del boreout, ovvero morire di noia, vegetare e tirare a campare aspettando che arrivi in fretta la fine della giornata. Sui social, principalmente TikTok, è sempre più popolare il trend #boredatwork, che raccoglie milioni di visualizzazioni e consensi. I protagonisti dei video si mostrano mentre scarabocchiano fogli o li fanno a pezzi, sbuffano, o si perdono in piccole attività al solo scopo di far passare il tempo. Ma non raccontano una generazione di sfaticati, piuttosto una disillusa e nella quale il rendimento professionale non è un valore assoluto.

Il termine boreout è stato usato per la prima volta nel 2007 dagli studiosi svizzeri Philippe Rothlin e Peter R. Werder. Deriva dal verbo inglese to bore, annoiare, e descrive l’insoddisfazione dovuta alla mancanza di stimoli e prospettive. Questo si traduce in apatia e disinteresse, causati dalla costante sensazione di non essere valorizzati sul luogo di lavoro e di non poter esprimere le proprie capacità. L’americana McKinsey ha dedicato al fenomeno una piattaforma online, Mind the Gap, in cui spiega cosa succede e fornisce soluzioni per colmare il divario tra generazioni di lavoratori.

Il punto è che la Gen Z non vuole somigliare a quella dei capi, ossessionati dalla performance sul lavoro, incapaci di staccare e di dare valore alla vita privata. Allo stesso tempo però fa fatica a immaginare un nuovo modo di lavorare, poiché gli unici esempi che ha sono, appunto, quelli che non vuole seguire. Lo stipendio, per i nati grossomodo tra il 1997 e il 2010, è sì un elemento essenziale per decidere se accettare o meno un impiego, ma non è l’unico e comunque viene tenuto in considerazione molto meno che in passato. Se il compenso è l’obiettivo finale, non è però quello primario: la salute mentale e il work-life balance sono le nuove priorità. Insomma, nessuno sembra più disposto a dedicare tutte le proprie forze al fare carriera e l’impegno deve essere ricompensato economicamente ma anche con gratificazioni.
Tutto questo si traduce nel fatto che i giovani lavoratori non si sentano di dare qualcosa in più rispetto a quello per cui sono pagati, e di andare oltre le proprie mansioni non se ne parla. Quindi, in assenza di riconoscimenti economici o di feedback da parte della dirigenza (magari composta da boomer che si aspetterebbero di vederli dare sempre il massimo anche senza riscontro) si accontentano di svolgere il compitino svogliatamente, senza trovare soluzioni nuove e senza mettersi in gioco.
Il boreout è meno distante dal burnout di quanto si pensi. Entrambi sono modi disfunzionali di vivere il lavoro, sintomi che qualcosa, da qualche parte, non sta funzionando come dovrebbe. Entrambi hanno come risultato una stanchezza cronica che può sfociare in problemi di salute mentale, anche se da un lato deriva da una carenza di stimoli e nell’altro dal suo eccesso.

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