21.02.2025
Grazie alla crisi climatica che riduce la glaciazione alle alte latitudini, l’Artico è oggi una nuova frontiera. Una frontiera fragile, perché il suo ecosistema si basa su equilibri delicati. Ma potenzialmente una frontiera dalle grandi implicazioni strategiche ed economiche. I veri giochi si fanno su tre assi: lo sfruttamento delle risorse dell’area, le rotte artiche, la presenza militare. Con la Cina decisa a guadagnare in quest’area un ruolo sempre più importante, gli Stati Uniti determinati ad impedirglielo, la Russia salda nel difendere la sua primazia storica e militare su buona parte dell’Artico e l’Ue sostanzialmente inesistente.
La corsa alle risorse: il caso Groenlandia
La Groenlandia possiede riserve per 43 dei 50 minerali considerati “critici” dal governo americano, con una stima di disponibilità di 42 milioni di tonnellate, più della Cina. Con la deglaciazione in atto, i giacimenti diventano più accessibili e quindi sfruttabili. E Pechino, che vuole mantenere il suo predominio nel controllo dei minerali critici, sta muovendosi con decisione per avanzare nella nuova frontiera, e cosi fanno gli Stati Uniti.
Basti pensare al giacimento di Kvanefjeld, sulla costa sud occidentale della Groenlandia, che con il suo miliardo di tonnellate estraibili ha il potenziale di diventare la più grande miniera di terre rare dell’Occidente. Il giacimento era ed è in concessione a Greenland minerals (oggi Energy transition minerals) una compagnia australiana quotata alla Borsa di Sidney ma nella quale il maggiore azionista, con una quota dell’11%, è la cinese Shenghe Resources.
Certo per chi vuole sfruttare le risorse artiche non è mai una passeggiata. E le miniere “storiche” in Groenlandia hanno un passato di inquinamento ambientale. “Dopo tre o cinque decenni dalla chiusura delle miniere di Ivittuut, Mestersvig e Maarmorilik – hanno scritto su Science of the Total Environment i ricercatori Jens Søndergaard e Anders Mosbech del Department of Ecoscience della Aarhus University – la situazione è migliorata, ma le attività minerarie hanno lasciato un’eredità di inquinamento che si estende per almeno 5-12 chilometri dalle fonti. È probabile che il problema continuerà per molti decenni a venire”. E i locali, che temono un effetto negativo sull’ecosistema e in particolare sulla pesca, altra grande risorsa dell’isola, lo sanno.
La popolazione della Groenlandia si è opposta per anni alla miniera di Kvanefjeld, prima manifestando davanti al Parlamento e portando il Paese a elezioni anticipate, poi spingendo alla vittoria il partito di sinistra ambientalista Inuit Ataqatigiit, che ha guidato l’opposizione contro lo sfruttamento dei giacimenti di terre rare di Kvanefjeld che hanno come sottoprodotto uranio e zinco. Gli ambientalisti e i residenti hanno stoppato il progetto. La decisione, formalizzata per legge, ha portato alla revoca dei diritti dell’azienda sul progetto Kuannersiut.
No, l’uranio no
Il governo ha sostenuto che l’estrazione di terre rare in quel sito avrebbe comportato inevitabilmente l’estrazione di uranio, ora vietata se il materiale contiene più di 100 PPM di minerali radioattivi. In risposta, Greenland Minerals ha chiesto un risarcimento di 11,5 miliardi di dollari, inizialmente tramite arbitrato e quindi in tribunale. I sette partiti che compongono il Parlamento della Groenlandia sono tutti, anche il partito di maggioranza relativa Inuit Ataquatigiit, a favore dello sfruttamento minerario delle risorse dell’isola – un’attività che viene considerata propedeutica alla richiesta di indipendenza che non può concretizzarsi senza una base economica adeguata – ma non senza limiti e per il momento vietando l’estrazione dell’uranio, che spesso è presente nei giacimenti di terre rare.
E’ un freno non da poco. Non a caso il governo groenlandese nel novembre del 2001 ha revocato anche la licenza per la grande minera di ferro di Isua, originariamente di una società britannica ma dal 2015, dopo il fallimento dell’azienda europea, in mano alla società mineraria General Nice di Hong Kong. Pesano le considerazioni ambientali ma anche, evidentemente, quelle strategiche.
Bloccare Pechino
Scottati dai cinesi in Africa, gli americani, ben prima di Trump, si sono mossi per bloccare Pechino in Groenlandia. Greg Barnes, ceo della società privata Tanbreez Mining, ha detto alla Reuters che i funzionari statunitensi che hanno visitato il suo progetto nella Groenlandia meridionale (risorse per mezzo miliardi di tonnellate) due volte l’anno scorso “hanno ripetutamente invitato la sua società – scrive Reuters – che era a corto di liquidità, a non vendere il grande giacimento a un acquirente legato a Pechino”.
La pressione è stata così forte che Barnes ha infine accettato il pagamento di 5 milioni di dollari in contanti e 211 milioni di dollari in azioni dell’americana Critical Metals, molto meno di quanto offerto dalle aziende cinesi. Il terzo maggiore investitore di Critical Metals è la società di brokeraggio Cantor Fitzgerald, guidata da Howard Lutnick, che Trump ha nominato per dirigere il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. La guerra continua.
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