16 Maggio 2024
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Storie

L’Antartide, Luna terrestre

26.12.2023

«Davide non devi rinunciare a questa avventura». L’avventura di Davide Carlucci durata un anno in Antartide, dalle notti piene di stelle alla perdita del padre che pronunciò quella frase. Per lui il Continente bianco era come una calamita.

«È un luogo estremo, è come stare sulla Luna. I primi esseri umani li rivedremo solo all’inizio di novembre quando i nuovi colleghi ci daranno il cambio. Anche loro, come noi, saranno gli umani più isolati dal mondo per ben 13 mesi».

Parlava così Davide Carlucci, station leader della base di ricerca permanente italo francese Concordia al Polo Sud. Ora per lui quell’incredibile avventura è finita, ma il mal d’Antartide è difficile da superare: «È stato un periodo bello, affascinante, ma anche molto impegnativo – ricorda il ricercatore che abitualmente lavora all’Infnito (Istituto nazionale di Fisica nucleare) di Legnaro (Padova) – L’Antartide è un luogo dove non si può vivere a cuor leggero. Per quel che ci riguarda la prima regola da rispettare è stata la sicurezza. Certo, ci sono stati momenti difficili, ma sono ancora qui».
Per lui, che da ragazzo si appassionava leggendo le avventure di Shackleton, il Continente bianco ha rappresentato sempre una sorta di calamita.

Ma alla fine come le è venuta l’idea di andare?
«Ho colto l’occasione leggendo il bando del Pnra (Programma nazionale ricerche in Antartide). A quel punto, sapendo che il lavoro che stavo svolgendo all’Infn doveva avere una pausa, ho chiesto il permesso di partecipare alla selezione e alla fine ce l’ho fatta: il sogno di far parte della trentottesima spedizione si è avverato».

Quali sono le sensazioni, le esperienze, i momenti che più le sono rimasti impressi?
«Non saprei perché sono davvero tanti, ma dovendo fare una scelta direi che principalmente sono due. All’inizio l’arrivo al Polo Sud è sconcertante. Osservi la base con intorno quella sconfinata distesa di bianco e non capisci bene dove sei finito…».

E l’altro?
«Il cielo. Sì, il cielo dell’Antartide è una visione incredibile. Nell’estate australe ha un azzurro che mai avevo visto prima e nelle notti, invece, è come avere la testa immersa nello spazio per il numero incredibile di stelle».

Come si fa a gestire una manciata di uomini in un luogo così remoto?
«In modo normalissimo rendendoti soprattutto disponibile con gli altri. Debbo dire che l’esperienza nell’Aeronautica mi è stata davvero di grande aiuto nell’affrontare le situazioni che si sono venute a creare».

Il momento più difficile?
«Quando per una decina di giorni abbiamo avuto le comunicazioni fuori uso e i contatti con l’esterno sono diventati davvero difficili, ma alla fine ci siamo arrangiati da soli. La preparazione affrontata prima di partire è stata decisiva».

E quello che l’ha più segnata?
«La morte di mio padre. È stata un dolore che mi ha spaccato il cuore. Volevo essere vicino a lui, andare al suo funerale, abbracciare mia madre e i miei familiari, ma non l’ho potuto fare. Non averlo potuto salutare per l’ultima volta mi resterà dentro per tutta la vita. Lui è mancato il 13 marzo e l’ultimo aereo dal Polo Sud è decollato a febbraio».

Se ci fosse stata la possibilità di un volo cosa avrebbe fatto?
«Sarei andato. Ma se non ci fosse stata la possibilità di ritornare qui a Concordia non avrei lasciato i ragazzi da soli. Del resto, mio padre prima di partire dall’Italia me lo aveva detto: “Davide non devi rinunciare a questa avventura”. Quella frase e quegli ultimi sguardi tra noi ora sono qualcosa che mi conforta. Grazie papà».

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