Per le strade di Seydisfjordur, cittadina affacciata sui fiordi islandesi, tutto sembra tranquillo: i turisti passeggiano, la neve brilla sulle montagne e un insolito sole illumina le case color pastello. Ma dietro quell’idillio si nasconde un’allerta crescente: gli abitanti del villaggio temono l’arrivo dei “mostri”.
No, nessuna leggenda locale. A preoccupare sono i salmoni deformi che fuggono dagli allevamenti in mare aperto e si ibridano con quelli selvatici. Li chiamano “pesci zombie”, perché privi di occhi, ricoperti di lesioni o mutilati a causa di infezioni e predazioni. E se il governo islandese darà il via alle nuove concessioni, nel fiordo di Seydisfjordur potranno essere allevate fino a 10 mila tonnellate di salmoni.
Uno scenario, questo, che spaventa la comunità locale, in lotta da ormai quattro anni contro questa prospettiva. Uniti in questa battaglia insieme agli attivisti, hanno un solo obiettivo: proteggere uno degli ultimi rifugi del salmone atlantico selvaggio, una specie che ha subìto un calo globale drammatico. Oggi, rispetto al 1970, ne resta appena il 25%.
Allevamenti in mare aperto: una minaccia globale
Il problema degli allevamenti in mare aperto, però, non riguardano solo l’Islanda. E queste attività hanno un grosso impatto ambientale: “Gli impatti principali sono dovuti ai grandi quantitativi di deiezioni di questi animali, all’uso massiccio di medicine come antibiotici e antiparassitari e al rilascio dei mangimi che non vengono tutti assunti dagli animali chiusi nelle gabbie ma possono depositarsi sul fondo. Questo ovviamente ha delle conseguenze sui fondali e sugli animali che vivono attaccati ai fondali”, spiega Valentina Di Miccoli, campaigner mare di Greenpeace Italia.
E prosegue: “Uno dei problemi principali spesso è la riduzione dei quantitativi di ossigeno che si trovano sui fondali sotto le gabbie; questo ovviamente cambia un po’ in base alla collocazione delle gabbie: quelle più sotto costa con fondali non troppo elevati, massimo 10-15 metri, sono le più soggette a questo tipo di inquinamento. Dove invece le gabbie sono più in alto mare e i fondali arrivano a 40 metri di profondità questo problema si riscontra meno, perché le sostanze si disperdono nell’acqua”.
Ancora – come ha spiegato l’esperta – un’ulteriore fonte di inquinamento è data dai trattamenti antifouling, i trattamenti per evitare che alle gabbie si possano attaccare organismi di vario tipo. Sono sostanze che possono contaminare le acque.
Acquacoltura sostenibile?
All’interno del contesto europeo, poi, spesso si sente parlare di acquacoltura sostenibile, con l’erogazione di ingenti fondi: “Ma quando si parla di acquacoltura sostenibile – riflette Di Miccoli – una delle prime domande è: che si intende per sostenibilità del settore? Qual è un’acquacoltura sostenibile? Ci sono degli indicatori che la definiscono? A livello nazionale, purtroppo, questi indicatori non li abbiamo, e gli impianti sotto costa, che sono la maggior parte, sono altamente inquinanti e non sostenibili”.
Una soluzione, dunque, potrebbe essere quella di spostare questi allevamenti in aree più lontane, in zone con fondali più alti. Ma questo farebbe aumentare vertiginosamente i costi per le aziende e, conseguentemente, per il consumatore finale.
Conseguenze globali
In realtà questi allevamenti sono vere e proprie industrie multimiliardarie. In particolare, per quel che riguarda i salmoni, si tratta di attività nate in Norvegia e poi espanse in Cile, Scozia, Australia e, di recente, in Islanda. Tanto che, ad oggi, il 70% dei salmoni consumati nel mondo proviene da allevamenti. Numeri, questi, che nascondono anche un’altra storia: in media, il 40% dei pesci muore prima del momento della raccolta a causa di malattie, pidocchi di mare, parassiti e condizioni estreme.
Quello di Seydisfjordur dunque non è un caso isolato. In Cile, per esempio, l’arrivo degli allevamenti ha segnato un punto di non ritorno, e il problema è in forte espansione. O ancora, si discute sull’apertura di nuovi impianti persino nelle remote Falkland, vicino all’Antartide, e nell’Adriatico: proprio di recente, infatti, un consorzio croato-norvegese ha presentato uno studio per allevare salmoni in acque profonde tra Croazia e Italia. Piccolo problema: il Mediterraneo non è assolutamente l’habitat naturale di questi pesci.
“Spesso si dimentica anche un altro aspetto critico – avverte Di Miccoli – ossia che cosa mangiano i pesci di allevamento. Molti di loro sono carnivori e vengono nutriti con altri pesci allevati”. Insomma, un cortocircuito ecologico: alleviamo pesci per ridurre la pesca, ma per farlo peschiamo ancora di più. Ma per Di Miccoli la strada da seguire è chiara: “Serve ridurre il consumo di pesce e puntare sulle proteine vegetali”. E serve regolamentare in modo serio l’acquacoltura per renderla davvero sostenibile. Perché i danni, ormai, sono sotto gli occhi di tutti.