04.05.2024
Concorrenza assottigliata, percorso semplificato, persino il “tappone” dello Stelvio non è più quello di una volta, tutto a vantaggio di Pogacar, che punta all’accoppiata col Tour. Ma il Giro è sempre il Giro: spesso il percorso bocciato sulla carta finisce per essere promosso dalla strada.
Ci siamo. Quel che dal 1909 in avanti è diventato un rito sta per compiersi. L’oggetto in questione è il Giro d’Italia di ciclismo, che è anche il Giro dell’Italia (quasi tutta, isole grandi e piccole escluse) e – per certi versi, guardando un pelino oltre il proprio naso – l’Italia del Giro. Nell’immaginario collettivo, gli aspetti evocati si intrecciano, si accavallano, si allontanano e tornano a riunirsi. Già c’è stato modo di sottolineare come il “Giro” per antonomasia abbia tradito il dna di “corsa più difficile del mondo nel Paese più bello del mondo” – claim che nella prima decade del Duemila gli aveva permesso di tornare tecnicamente nella scia del Tour de France, a poche incollature di distanza, dall’evento transalpino e di sopravanzare la minacciosa Vuelta a Espana – per accattivarsi la simpatia (partecipazione) del numero 1 del ranking mondiale Tadej Pogacar ben corroborata da cash suonante.
Il Giro che nasce per la 107^ volta è tutto qui, purtroppo: percorso semplificato a tutto vantaggio di Pogacar, che punta all’accoppiata col Tour (l‘ultima è ormai lontanissima nel tempo perché bisogna risalire alle galoppate di Marco Pantani del 1998) grazie anche alla concorrenza davvero assottigliatasi a pochissimi nomi per scelte tecnico-politiche e per qualche incidente di troppo registrato nella combattutissima primavera. «Se c’è qualcuno che può vincere il Giro e il Tour nello stesso anno, questi è Pogacar», ha bisbigliato Eddy Merckx – l’ultimo dei Giganti della strada. Come dargli torto? Lo sloveno pesca nel proprio fisico neppure trascendentale risorse insospettabili. E coloro che potrebbero mettere in discussione il progetto dell’accoppiata – dal connazionale Primoz Roglic al danese Jonas Vingegaard, dal britannico Geraint Thomas all’altro inglese Chris Froome, tanto per fare qualche nome – sono in infermeria.
Nelle ultime settimane, non abbiamo certo invidiato i manovratori del vapore di casa Gazzetta costretti a tenere in piedi un cartellone di contendenti di terza schiera per un percorso appeso al “tappone” dello Stelvio, già addolcito strada facendo rispetto alla presentazione e che in certe circostanze presenta caratteristiche da corsa dilettantistica. Ma, si sa, il Giro è sempre il Giro: spesso il percorso bocciato sulla carta finisce per essere promosso dalla strada (come scriveva Bruno Raschi quando la critica attaccava patron Vincenzo Torriani per qualche edizione della corsa rosa definibile come scricchiolante), un giovane inaspettato viene sempre alla ribalta e le mini-galoppate possono essere così enfatizzate da apparire come imprese leggendarie pur non essendole.
In sintesi: 21 tappe in 23 giorni da Venaria Reale (Torino, 4 maggio) e Roma (26 maggio), con appena 4 giornate oltre i 200 chilometri dei 3.400 di sviluppo complessivo (72 km a cronometro, troppi), quasi 45.000 metri di dislivello positivo, ma con sole 10 salite di prima categoria e 9 di seconda serie, 6 arrivi in salita tra vera e propria ascesa e qualcuna falsa aspettativa. A caccia di Pogacar hanno l’obbligo di uscire dal cono d’ombra soprattutto gli stagionatissimi Geraint Thomas, Romain Bardet e Damiano Caruso. Per qualche guizzo di marca italica siamo aggrappati al fondista Filippo Ganna e allo sprinter Jonhatan Milan. Il resto è tutto da scrivere e da scoprire davanti alla televisione per cui la sola Rai promette (o minaccia?) 170 ore di produzione da godere in chiaro in Italia e in pochi altri posti al Mondo.
Credito Fotografico: Giroditalia.it