28 Maggio 2025
/ 26.05.2025

Sebastião Salgado, l’uomo che fotografava l’anima del mondo

Il 23 maggio 2025, a Parigi, si è spento Sebastião Salgado. Aveva 81 anni. Con lui se ne va non solo uno dei più grandi fotografi del nostro tempo, ma anche un testimone visionario dell’umanità e della natura, capace di trasformare la fotografia in uno strumento di giustizia e di rinascita. Colpito da una leucemia, dopo aver contratto anni fa la malaria durante un reportage in Indonesia, Salgado lascia un’eredità profonda: un mondo raccontato senza filtri, ma sempre con rispetto, empatia e passione.

Dall’economia alla fotografia: la scelta di cambiare vita

Nato nel 1944 ad Aimorés, nel cuore del Brasile, Salgado aveva iniziato la sua carriera come economista. Ma negli anni ’70, mentre viveva in Francia con la moglie Lélia, capì che i numeri non gli bastavano più. Gli servivano immagini. E cominciò così a documentare conflitti, carestie, migrazioni, catastrofi naturali, ma anche la forza e la dignità dei popoli, la bellezza selvaggia del pianeta, la fatica e l’orgoglio del lavoro umano.

Il suo bianco e nero ipnotico, denso, carico di chiaroscuri e umanità, è diventato la sua cifra stilistica. Ma il bianco e nero, diceva, “non è una scelta estetica: è una forma di concentrazione. Elimina il superfluo e lascia parlare l’essenza”.

L’obiettivo puntato sul dolore, senza mai cedere al voyeurismo

Salgado ha attraversato più di 120 Paesi, raccontando i grandi esodi della fame e della guerra, la fatica disumana dei minatori di Serra Pelada, la tragedia del genocidio in Ruanda, l’epopea dei migranti in fuga dal Sahel. Nei suoi scatti non c’è mai compiacimento. C’è denuncia, certo, ma anche compassione. 

Lui stesso, però, a un certo punto è rimasto travolto dal dolore che ha raccontato. Dopo anni passati a fotografare sofferenze, disse di aver perso fiducia nell’essere umano. A salvarlo è stata la natura. E una scelta radicale: tornare in Brasile, dove tutto era iniziato.

Instituto Terra: la fotografia diventa riforestazione

Nel 1998, insieme alla moglie, fonda l’Instituto Terra. In una zona devastata dal disboscamento, la coppia pianta milioni di alberi, trasforma una landa arida in un polmone verde, riporta a casa uccelli, insetti, mammiferi scomparsi da decenni. Un’opera di restauro biologico e morale, un atto d’amore.

Questo impegno si riflette nei suoi ultimi lavori, soprattutto nel colossale progetto Amazônia, un viaggio fotografico di sette anni nella foresta più importante del mondo. Un grido silenzioso contro la deforestazione, ma anche un omaggio potente alle popolazioni indigene, alle loro culture, ai loro saperi ancestrali. “La foresta ha un’anima”, diceva. E lui ha provato a ritrarla.

Salgado non cercava lo scatto perfetto: cercava la verità. E la trovava nei gesti lenti, nei volti segnati, nelle mani callose, nei paesaggi scolpiti dalla luce. Il suo lavoro è stato riconosciuto con ogni premio possibile, dalle onorificenze internazionali alle mostre nei più grandi musei del mondo. Ma ciò che resta, più di tutto, è la lezione: vedere non basta. Bisogna imparare a guardare. E guardare, per Salgado, voleva dire prendersi cura.

Un’eredità che non sbiadisce

Con la sua Leica, ha scritto una delle cronache più intense e dolorose del nostro tempo. Ma è riuscito anche a mostrarci che un altro futuro è possibile. Un futuro dove l’arte e l’impegno non si escludono, ma si rafforzano a vicenda. Dove la bellezza non è evasione, ma resistenza.

Sebastião Salgado ha raccontato la Terra come un organismo vivente. E l’ha difesa con la stessa dedizione con cui un medico difende il suo paziente. Il suo sguardo resta con noi.

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