04.08.2023
«È il mercato che lo richiede», storico rincaro a Spotify dopo 15 anni di onorato servizio. La musica costa di più in tutti i settori, ma chi produce resta spesso con le briciole. Forti squilibri in tutte le piattaforme digitali.
Non saranno 1 o 2 euro, a seconda del piano a cui si è abbonati, a farci recedere dall’idea di ascoltare musica su Spotify. Però il fatto che sia il primo aumento della storia della piattaforma, dopo 15 anni di onorato servizio, fa pensare che nel mondo dello streaming vada tutto bene, ma non benissimo. La società fondata da Daniel Ek e Martin Lorentzon ha poi perso più del 10 per cento in Borsa, e questo perché – nonostante una crescita degli utenti dell’11% – le perdite del primo trimestre 2023 di oltre 110 milioni lasciano presagire che il business non riesca a decollare. E gli analisti, si sa, guardano lontano.
Il sistema digitale insomma doveva cambiare le nostre abitudini: lo ha fatto, ma come in tutte le curve tecnologiche la crisi di rigetto sembra non aver ancora toccato terra. È la solita parabola: ci innamoriamo di un’innovazione, ci buttiamo tutti a pesce perché questo è il futuro, per poi scoprire che l’acqua in cui galleggiamo non è così confortevole come si pensava. E, in questo momento, il discorso vale per la musica così come per i servizi video.
Riguardo a Spotify, lo storico rincaro è stato giustificato con la frase «è il mercato che lo richiede». Ed in effetti, proprio quel tipo di mercato, è già da un po’ che ce l’ha con un’azienda che fatica a riconoscere agli artisti quanto meritano. Se dunque, in questa estate di concerti, ci siamo lamentati per il costo dei biglietti, sappiate che proprio i live sono diventati il mezzo principale di sostentamento di cantati e band, visto che lo streaming è particolarmente spilorcio.
Spotify, è vero, si tiene il 33 per cento dei guadagni di una canzone e versa il restante a chi possiede i diritti. Ma siccome questi sono quasi sempre in mano alle case discografiche, ecco che chi produce musica resta spesso con le briciole. Alla fine, il tutto si quantifica con un guadagno di 0,04 per stream, il che vuol dire che dopo un milione di passaggi si arriva a 40 dollari.
Il sistema in pratica non regge, così come la pazienza di chi ormai vive sui ricavi online. L’aumento di prezzo dovrebbe aiutare a migliorare la situazione (e già le major chiedono “rincari ricorrenti”), la verità però è che tutto il mondo che vive sul web non riesce a trovare la quadra. Netflix, per esempio, ha dovuto limitare la condivisione delle password per vedere un aumento di 6 milioni di abbonati e cercare di far quadrare i conti, altre piattaforme hanno aumentato già più volte i prezzi (vedi Dazn in Italia o le rivali di Spotify come Apple Music o Amazon Music), e soprattutto c’è lo sciopero degli sceneggiatori di Hollywood contro l’uso dell’intelligenza artificiale che potrebbe presto coinvolgere anche gli autori musicali.
In questa situazione la curva tecnologica cerca il suo punto di equilibro, e come spesso accade il passato riappare: nella musica grazie alla sempre più insistente uscita di vinili, e nel settore video con il ritorno di investimenti sui canali Tv generalisti. Un “Ritorno al futuro”, alla fine, molto più reale di un film in streaming.