24.06.2024
Rimandata la sentenza sui permessi di Vallanzasca. Una vicenda che accende l’allarme sullo stato di salute dei nostri detenuti, sempre più ammalati. Il 70% dei carcerati soffre di almeno una patologia, con incidenze di epatite C e HIV, che superano di gran lunga quelle della popolazione esterna.
Renato Vallanzasca, il “Bel René” della mala milanese degli anni ’70, è tornato il 19 giugno in aula al Tribunale di Milano per chiedere la revoca del provvedimento che gli vieta i permessi premio. Permessi premio che gli consentirebbero di recarsi presso una comunità terapeutica per curare il decadimento cognitivo-degenerativo di cui è affetto ormai da diverso tempo. Ma la Procura si riserverà di prendere una decisione soltanto nei prossimi giorni.
Una vicenda, questa, che riapre l’annoso dibattito sui diritti dei detenuti, e in particolare per quel che riguarda i condannati per reati gravi. E i dati in merito parlano chiaro: secondo l’ultimo studio generale sulla salute in carcere – risalente al 2014 e condotto in 57 istituti e 16.000 ospiti – il 70% dei carcerati soffre di almeno una patologia, con incidenze di epatite C e HIV che superano di gran lunga quelle della popolazione esterna. A confermare lo scenario ci sono anche dati più recenti elaborati da Antigone: secondo il rapporto del 2023 dell’associazione, il 40% dei condannati assume sedativi e ipnotici (e con il 9% delle diagnosi che sono psichiatriche gravi).
E le condizioni di sovraffollamento e fatiscenza nelle strutture detentive non fanno che aggravare la situazione: celle senza acqua calda, docce e riscaldamento non funzionanti sono la norma in oltre metà degli istituti. Il che, crea ambienti fertili per la diffusione di malattie.
Le cause di questo disastro annunciato sono molteplici. Sempre secondo i dati Antigone, nella maggior parte dei casi negli istituti detentivi è presente un solo medico, e non tutte le strutture garantiscono la presenza di un medico durante le 24 ore della giornata. Ancora, gli operatori sanitari faticano a gestire le emergenze e a garantire le cure adeguate a causa del sovraccarico di lavoro, e non può passare in secondo piano la burocratizzazione che ostacola l’accesso alle cure e rende i percorsi sanitari complessi e inefficienti.
Ma l’inadeguatezza del sistema sanitario carcerario non è solo una questione di diritti negati, ma rappresenta anche un problema di sicurezza pubblica e salute collettiva.
Una questione, questa, che richiede insomma un intervento urgente da parte delle autorità competenti, ma che richiede anche un intervento nella sua narrazione. Perché è un tema su cui è facile essere divisivi, su cui è facile cucire etichette e sentimenti di odio: “sono in carcere perché se lo sono voluto, marciscano pure”. È semplice pensarlo. E l’opinione pubblica, soprattutto di questi tempi, è facile da trascinare nelle zone d’ombra, quelle più oscure, dove non esiste luce, dove non esistono vie di mezzo, dove il bene e il male sono polarizzati senza riserve. Ma il nostro sistema carcerario è un sistema rieducativo, non repressivo, e in quanto tale dovrebbe garantire ai detenuti il rispetto dei diritti fondamentali. Compresa la salute.