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Arrivato Sanremo, l’immagine festaiola, repubblica delle canzonette

08.02.2024

Più che rappresentare l’epopea della musica nostrana, il Festival di Sanremo proietta l’Italia con i suoi mutamenti e quell’immancabile gusto per le polemiche e i veleni. All’insegna di una comunione sociale, culturale e politica, è un insieme che dà forma alla nostra identità imperfetta, ma vivace. Sulla “Riviera dei fiori”, il Festival nato come simbolo si è trasformato in brand.

Nato quasi in sordina tra scetticismo e indifferenza della stampa e trasmesso solo per radio alle 22,00 di quel 29 gennaio 1951 dal Salone delle feste del Casinò di Sanremo, chi avrebbe mai detto che un Festival dedicato alla valorizzazione della canzone italiana (con industria discografica), in un Paese che tentava di ricostruire sé stesso nel dopoguerra, sarebbe diventato una “nicchia-brand” (in odore di santità) della coscienza nazionale?

Passando dal Grazie dei fiori di Adionilla Pizzi, in arte Nilla, alle estremizzazioni dei Maneskin, dall’ingessato Nunzio Filogamo, al Fiorello garrulo e ad Amadeus nasuto (leggasi fiuto)? Eppure, è successo che questa kermesse (nel destino della tv) si trasformasse in una narrazione popolare e producesse scariche adrenaliniche per chi ne parla, la descrive, la vede. Sembra che la musica innervi ogni azione, detti e anticipi mode e costumi, fotografando il corpus sociale nel suo percorso ondivago di una Repubblica fondata sulle canzonette (altro che lavoro!).

Lo spettacolo diventa rito, e il rito si fa spettacolo. Con una sacralità che, in maniera autoreferenziale, protegge sé stessa. L’immagine festaiola strumentalizza la musica, creando un immaginario (che diventa un modus vivendi), pervasivo, generatore d’illusioni, mistificatore dei fatti, un cortocircuito che confonde l’autocelebrazione vacua con la realtà. La gente ha bisogno di svagarsi, rincorrendo amori e sogni da realizzare, si sa. La musica che conserva un cuore di privato e corale, intimità e condivisione (per i più), può offrire il tappeto fiorito congeniale (siamo a Sanremo, o no!?!). Ma i detrattori s’organizzano, fondano club di resistenza, critiche e polemiche di natura guelfo-ghibellina (il nostro Dna) s’affastellano. La scala spacca-tacco12 dell’Ariston diventa il discrimine per accapigliarsi (fintamente) al bar o sui social. Stress ed emozioni; conduttori colle stimmate della missione da compiere (la serenità coram populo); presentatrici imbellettate prossime alla plastificazione; cantanti impupazzati tra piume svolazzanti e misses da spiaggia; vecchie glorie di ritorno con l’armonia in balìa disperata, ormai, di una rap-pizzazione selvaggia a sfidare improbabili refrain para-filosofico-sociologici affidati a brani trasformati in sedute psicoanalitiche, compendi di bon ton spalmati mediante una glassa di rassicurazione e d’allegria che tutto intride ed irradia.

Con quella sensazione feticistica che trasforma Sanremo in totem inattaccabile. E che musica sia, dunque! I problemi della vita concreta che aspettino pure fuori, prego! Sul palco fasciato da luci psichedeliche e suoni che una grand’orchestra convoglia in un limbo (“perdita di realtà”?), caratterizzato non da vacuità ma, al contrario, proprio dalla sua pienezza eccessiva (per molti). Zigzagare diventa impresa improba, tra denunce sociali di turno, dopo interviste stiracchiate, corrose dall’ovvio, di ospiti a frotte (modello: mentire e improvvisare, pur di esserci) e spicchi d’ironia (sempre più forzata ed in autentica: ah Vianello, dove sei?). Il carrozzone polisemico ricerca bulicamente l’elefantiasi, nel relegare, al fine, la musica in un angolo (un’ora su cinque, sob!), per celebrare una cerimonia pubblica che risponde alla necessità di identificarsi, al di là delle differenze quotidiane (età, lavoro, interessi, livello di istruzione), come parte di uno stesso presente, in una sorta di “villaggio temporaneo”, per una “settimana santa”. «La Verità ha la struttura di una finzione», avrebbe sospirato Lacan. Ecco, perché “Sanremo è Sanremo”.

Credito fotografico: Rai

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