È una questione culturale. Il rumore è considerato un fastidio, non una minaccia fisica. E qui sta l’errore. Un errore che costa 66 mila morti all’anno in Europa (in Italia sono quasi 11 mila) perché l’inquinamento acustico non è un problema da trascurare. Lo evidenzia l’ultimo rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea): oltre 110 milioni di persone vivono quotidianamente immerse in un frastuono che supera le soglie di sicurezza fissate dall’Unione. Cioè sono costretti a convivere con un nemico invisibile che non si limita a “innervosire”: logora il corpo e la mente, in modo continuo.
Le stime dell’Oms sono più severe
Le conseguenze, infatti, vanno dai disturbi del sonno ai problemi cardiovascolari, dal diabete alla depressione. E la stima di 66.000 persone in Europa uccise dall’inquinamento acustico è una stima al ribasso: se si adottassero i criteri più rigorosi proposti dall’Organizzazione mondiale della sanità, il numero salirebbe a oltre il doppio, 150.000. Bisogna anche calcolare che tra le vittime più vulnerabili ci sono i bambini. L’esposizione prolungata al rumore nei primi anni di vita può compromettere lo sviluppo cognitivo, aumentare la pressione sanguigna e generare ansia. Gli studi dimostrano che frequentare scuole situate vicino a strade ad alto traffico o a scali ferroviari riduce le capacità di apprendimento. In un contesto del genere, parlare di diritto al silenzio non è una questione romantica, ma un’urgenza sanitaria e sociale.
Poi, accanto agli aspetti sanitari, ci sono quelli economici. Anche qui l’impatto è devastante. I costi legati alle cure mediche, alla perdita di produttività, alla riduzione della qualità della vita e ai danni ambientali si aggirano intorno ai 100 miliardi di euro l’anno.
Per contrastare il problema qualcosa è stato fatto, ma i risultati sono decisamente modesti. Tra il 2017 e il 2022, la percentuale di popolazione esposta a rumori eccessivi è diminuita solo del 3%. Una goccia nel mare. I rimedi ci sarebbero: più verde nelle città; aree di rispetto attorno alle zone residenziali; abbassamento dei limiti di velocità; pneumatici più silenziosi; più spazio ai trasporti pubblici, alle bici, agli spostamenti a piedi. Ma le misure adottate finora sono insufficienti anche perché, visto che manca una visione unitaria dei problemi ambientali, non si riesce mai a fare bene le somme.
La rivoluzione elettrica rallentata
Nel campo del rumore il nemico numero uno è il trasporto. E dunque, in primo luogo, il numero di automobili che non smette di crescere. Ma quando si parla di auto e di trasporto elettrico il confronto avviene solo in termini di prestazioni e di emissioni serra. La componente rumore è sostanzialmente ignorata, mentre la svolta elettrica (assieme all’intervento sugli pneumatici) sarebbe determinante nell’abbassare il volume delle città.
Il rapporto dell’Eea riporta dunque la questione del governo delle città al centro dell’attenzione. Si tratta di trovare soluzioni che rispondano all’assieme delle pressioni a cui siamo sottoposti: la crisi climatica con le ondate di calore crescenti; l’inquinamento acustico; la carenza idrica; la necessità di disporre di fonti di elettricità diffuse e a basso impatto ambientale. La soluzione complessiva per questi problemi esiste e si chiama transizione ecologica. Ma funziona se viene pensata non come uno spezzatino da servire a porzioni, ma come un assieme capace di difendere la salute e rivitalizzare l’economia.