28.08.2023
A 500 anni dalla nascita del suo ideatore, l’evento “Nel segno di Vicino” celebra il Sacro Bosco dei Mostri di Bomarzo con mostre, conferenze, concerti, teatro e visite speciali, così da far rivivere il fascino segreto di un parco colmo di riferimenti alla letteratura rinascimentale, che incantò persino Salvador Dalì, rapito dall’estro surrealista di questo vortice barocco di figure indecifrabili.
Ci sono posti che forse oggi anche Marc Augé nei suoi “viaggi antropologici del quotidiano” faticherebbe a definire come un “non luogo”. Così, tra una vegetazione lussureggiante, aggirandosi in questo parco incantato ammantato di mistero, lo stupore fagocita i pensieri verso un “altrove” impensabile. Il Sacro Bosco dei Mostri di Bomarzo, custodito nella Tuscia viterbese appartata, alle falde del Monte Cimino, un percorso iniziatico che conduce dalle Sfingi (come porta d’ingresso alla novella Tebe) al punto più alto sovrastato da un tempietto, continua a nutrire un immaginario ancora avido di sorprese.
E la Panca etrusca, fa da viatico: «Voi che per il mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte e stupende, venite qua dove son facce orrende, elefanti, leoni, orsi et draghi». Senza sapere il dove e il quando, lo spaesamento si trasforma in sottilissima guida tra edifici, sculture, luoghi di sosta e oggetti disseminati dappertutto in un “ordine disordinatissimo”, con Proteo-Glauco, essere acquatico greco a sorreggere un globo terrestre rotante, una Nike o Vittoria alata su un carapace di testuggine, nei pressi della fontana del Pegaso, cavallo alato che, allo scalpiccio degli zoccoli sul terreno, faceva sgorgare una sorgente.
Poi, Ercole vittorioso su Caco, associato all’affezione della Gigantomachia di Giulio Romano nel Palazzo del Te di Mantova. Fatto costruire nella seconda metà del Cinquecento da Pierfrancesco Orsini, soprannominato Vicino (1523), figlio di un condottiero nella signoria feudale di Bomarzo su un terreno assegnatoli (1542) dal cardinal Alessandro Farnese, vicecancelliere dello Stato Pontificio, questo parco (complice l’architetto Pirro Ligorio) si popolò presto di eroi mitologici, sirene, animali esotici, scolpiti nei massi di peperino e basalto, ma anche di architetture strampalate e iscrizioni ermetiche.
Un profluvio di creature inquietanti o ammaliatrici, nel reticolo di significati allegorici celati dietro figure dell’Olimpo e dello zodiaco, divinità e simboli pagani, tarocchi e geroglifici, a rappresentare il gran teatro del mondo e dei suoi misteri insondabili. Con riferimenti alla letteratura dell’epoca, dall’Orlando Furioso, all’Amadigi di Bernardo Tasso, alla Divina Commedia, e citazioni precise alla mitologia classica come il gigantesco Plutone, dio dell’abbondanza (con cornucopia) e dell’oltretomba, da Proserpina (dea degli inferi), a Cerbero (il mostro a tre teste che vi sostava all’ingresso), o come l’Echidna, metà donna e metà serpente, che cerca d’impedire il cammino ai viaggiatori. Fino alla bocca vorace di un Grande Orco, con occhi sgranati, narici dilatate, e labbro dalla scritta “Ogni pensiero vola”, un invito a liberarsi dai gravami della mente, che insieme al “Sol per sfogare il core”, posto su un obelisco in omaggio alla prematura morte della moglie Giulia Farnese (1560), furono la traccia che affascinò (dopo Goethe, Duchamp, Breton) Salvator Dalì, rapito dall’estro surrealista di questo vortice barocco di figure indecifrabili, tanto da dedicarvi un documentario (1948), e poi, Michelangelo Antonioni che vi girò La villa dei mostri (1949), entrambi ebbri per essere entrati nella Casa pendente, costruzione irregolare dallo smarrimento vertiginoso. Bomarzo, ovverossia teatro della sapienza e dell’esperienza, tra inganno e arte.