08.01.2025
Il 46% degli intervistati considera la gestione del tempo uno status symbol che rappresenta la nuova frontiera delle diseguaglianze sociali. Preme la continua sensazione di non avere mai abbastanza tempo, con i confini di vita lavorativa e vita privata sempre più sfumati. Riflessione sulla cronopenìa.
Nel 2011 usciva nelle sale cinematografiche In Time, il film distopico di Andrew Niccol con protagonisti Justin Timberlake e Amanda Seyfried. Per chi non ricordasse la trama, in breve, al compimento dei 25 anni di età ad ogni individuo compare un timer di 365 giorni, allo scadere del quale si muore. E questo tempo non solo diventa un conto alla rovescia, ma anche la valuta: se lavori e guadagni, avrai più tempo. Se hai tante spese, ne perderai.
Per fortuna, si tratta solo di un film. Ma che cosa succederebbe se le nostre vite si basassero sul tempo come valuta? Ad oggi, non ce la passeremmo proprio bene. Secondo un’indagine condotta da Domani, infatti, nella società contemporanea il tempo sta diventando una nuova forma di povertà chiamata cronopenìa. Una sensazione, questa, di perenne mancanza di tempo, che ormai colpisce la maggior parte degli italiani, e genera sempre più stress e sempre più insoddisfazione. Stando ai dati, il 46% degli intervistati considera la gestione del tempo uno status symbol e rappresenta la nuova frontiera delle diseguaglianze sociali: chi ha meno risorse economiche, spesso, è costretto a lavorare di più, lasciando poco spazio per sé. E non è un caso che per il 44% dei lavoratori la flessibilità oraria e l’autonomia nella gestione del tempo siano tra i fattori più importanti per scegliere un lavoro.
Dunque, la nostra epoca si conferma dominata da velocità e interconnessione, con la tecnologia che in buona parte ha contribuito a rendere più sfumati i confini tra lavoro e vita privata. E rispondere a un’e-mail di lavoro dopo l’orario lavorativo e pianificare le giornate minuto per minuto sono diventati abitudini quotidiane, ma che ci fanno percepire il tempo frammentato, mai davvero nostro. A peggiorare il quadro, poi, l’innalzamento delle aspettative e degli standard lavorativi, sociali e familiari: tutti ingredienti per creare un mix perfetto di ansia e inadeguatezza, un senso di affanno permanente che Hartmut Rosa ha definito “frenesia dell’immobilità”. Ma la cronopenìa non è solo un problema individuale, perché in minor o in maggior misura riguarda tutti quanti. E la sfida del XXI secolo diventa quella di trasformare il tempo in un diritto universale all’interno di un’epoca che ha dimenticato la meraviglia della lentezza.