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Cultura

L’eroina degli anni di piombo

13.08.2024

“Il fattore K”, l’Operazione Blue Moon, il condizionamento dell’opinione pubblica. Conversazione con Peter D’Angelo e Fabio Valle, autori del nuovo thriller “Il figlio peggiore”. Pensato per le nuove generazioni, il libro indaga la strumentalizzazione delle droghe pesanti durante i difficili anni in cui Roma era infuocata dagli scontri.

È vero che l’eroina è stata un’arma non convenzionale contro “il fattore K” (l’impraticabilità di una vittoria comunista nei paesi occidentali durante la Guerra Fredda, n.d.r.) per annichilire l’oltranzismo antiatlantico nei tumultuosi anni Settanta? È vero, come disse Cossiga, che dietro alle Bierre c’erano solo le Bierre? O c’era qualcun altro? E perché Vincenzo Vinciguerra è l’unico terrorista in carcere da mezzo secolo? Che in Italia il terrorismo politico possa aver nascosto alcune delle tante trame oscure che hanno cadenzato la storia della “Prima Repubblica” è informazione conforme ai dati acquisiti, basti vedere le numerose commissioni d’inchiesta e le ancor più numerose pubblicazioni fra libri e articoli di giornale. E che l’eroina potesse essere stata usata per “spegnere”, per “addormentare” la rivoluzione, pur non essendo questa una notizia così acquisita dai più, non è del resto nemmeno una notizia “stupefacente” e perdonate il gioco ci parole: se infatti indossassimo un cappuccio nero diremmo “chi sa, sa”.
Il figlio peggiore di Peter D’Angelo, Fabio Valle è un romanzo-indagine su una delle operazioni di intelligence internazionale meno conosciute della storia italiana. Gli anni di piombo, la diffusione dell’eroina, le proteste e il terrorismo in una Roma infuocata dagli scontri sono gli ingredienti di questo nuovo thriller targato Fandango. Per saperne di più ne abbiamo parlato con Peter D’Angelo  e Fabio Valle.

Cos’è stata l’Operazione Blue Moon?
«Ti rispondo con le parole di Roberto Cavallaro – ex collaboratore del SID (intelligence, Servizio Informazioni Difesa) – pronunciate il 7 ottobre del 2010, in Corte d’Assise, tribunale di Brescia. “Blue Moon è un’operazione [..] tesa a ridurre la soglia della eventuale resistenza attraverso l’ingresso programmato delle sostanze stupefacenti”; a questa prima risposta segue una ulteriore richiesta dal PM: “Vale a dire?”, e Cavallaro non fa altro che ribadire il concetto, già esplicitato ed esausto: “Vale a dire che… promuovere la diffusione delle sostanze stupefacenti avrebbe abbattuto la soglia di eventuale ribellione nei giovani».

Che effetti ha avuto?
«Gli effetti sono vasti, e su più livelli. Siamo in piena strategia della tensione, gli attentati dilagano: Piazza Fontana (69’), il tentato Golpe Borghese (70’), Italicus (74’), Piazza della Loggia (74’), siamo un paese cerniera, confiniamo con la Jugoslavia comunista di Tito, la guerra fredda è opprimente, e il nostro paese non può scivolare nella sfera di influenza comunista, così la pensa la Nato. Ma è evidente come tale strategia non stia funzionando: il PCI (partito Comunista) alle elezioni politiche del 76’ tocca il 34% dei voti, contro il 38% della DC (Democrazia Cristiana), è quindi il partito rosso più forte d’Europa. In questo contesto, qualcosa deve cambiare, così la strategia della tensione evolve, e inizia la sua virata in chiave narcotica. Una strategia su più livelli: “mediatico”, ci saranno oltre 10mila articoli scritti su un solo tema in soli 6 mesi (dopo il blitz sul Barcone del Tevere, dove si trovò poco e niente, ma si scrisse che era il mega-boat dei tossici capelloni). In media ci vorrebbero 4-5 anni per accumulare una tale mole di articoli giornalistici su un singolo argomento. In questo momento si crea il binomio capellone-tossico, che funziona ancora oggi, e si allontanano i moderati dalla sinistra, quella operaia, dei lavoratori, delle rivendicazioni. E poi, c’è un secondo livello, quello della strada, della vita vera, quello che spazza via la vita di ragazzi che finiscono nell’abisso del buco. La dipendenza, all’inizio, crolla come una slavina su una generazione impreparata, inconsapevole, quasi senza rendersene conto. Una generazione sacrificata, gambizzata, tra esigenze geopolitiche e strategie sperimentali (anche se, in realtà, queste erano già state testate sul Black Panther Party, facendolo implodere dall’interno, ma quella è un’altra storia)». 

Perché proprio nel 1975?
«Nell’inverno del 74’ che comprende anche i primi mesi del 75’, c’è l’arrivo massiccio di eroina nelle piazze romane, un’onda lunga che travolge Campo dei Fiori e si propaga alle estremità della Capitale. C’è un vuoto simultaneo di altre sostanze stupefacenti che i tossicomani utilizzavano abitualmente, e questo vuoto – inevitabilmente – fu riempito dall’arrivo dell’eroina. A quel punto i bucomani, stretti in un imbuto, hanno dovuto sostituire le vecchie inerzie con la nuova, senza scelta, e inconsapevoli – all’inizio – della dipendenza devastante che l’eroina crea già dopo pochi buchi».

Quali fonti sono state consultate per scrivere il romanzo?
«Chi ha contezza del piano integrale, è il testimone diretto, Roberto Cavallaro, l’ex SID (le sue ricostruzioni sono considerate affidabili da vari magistrati, tra cui Giovanni Tamburino), ci sono le carte del nucleo dei Carabinieri (ROS) con il Capitano Massimo Giraudo, le testimonianze di alcuni protagonisti di allora, come direttori di giornali di controinformazione, commissario della mobile che fece il primo arresto per spaccio di eroina, poi, chi partecipò ai finti set fotografici per l’identificazione dei primi spacciatori. E, ancora, chi in quel momento lavorava a stretto contatto con i tossicomani a Roma come Luigi Cancrini. Infine, i dati raccolti in modo molto accurato da sociologi guidati da Guido Martinotti, che con il suo gruppo di ricerca dell’Istituto Superiore di Sociologia, analizzò quei 10 mila articoli – di cui sopra – usciti in 6 mesi (dopo il caso del “Barcone” sul Tevere). Nella maggioranza dei casi i consumatori di droghe venivano descritti come “deviati”, “squallidi”, “disumani”, “violenti” e “sprovveduti”. Da qui si inizio a creare l’immaginario del bucomane capellone di sinistra».

 Perché se ne parla poco?
«Se ne parla poco di quello che non si conosce, che non è consolidato. E’ un periodo che deve ancora maturare nella memoria collettiva, perché – di quegli anni – si conoscono alcune verità nate da processi interminabili, storie zeppe di depistaggi, e poi, soprattutto, perché mancano rievocazioni filmiche del periodo, sul tema. C’era la percezione che qualcosa non quadrasse, ma mancava la testimonianza di Cavallaro. Per ora non è stato fatto nulla per entrate nell’immaginario condiviso. Si è raccontata una parte della criminalità di allora, dal punto di vista dei criminali, per altro, perché è più facile suggestionare il pubblico con l’etica criminale che con l’etica logorante e senza aria condizionata della “giustizia”. Generando un fascino per il male, esaltando le genialità nere, anche se questo è un boomerang negativo per tutti».

 Dai racconti emerge, in modo più o meno palese, il tentativo reiterato di orientare e condizionare l’opinione pubblica. Quanto c’è di paragonabile con la strategia delle attuali fake news?
«Dall’introduzione delle comunicazioni di massa sono nate teorie legate all’influenza delle stesse, come quella definita in sociologia “ago ipodermico” (Hypodermic Needle Theory), ci si riferiva a una forma di comunicazione penetrante, che condiziona senza grande possibilità di opposizione del pubblico, almeno negli anni 40’. Le teorie si sono evolute, ma il centro resta identico. Le fake news – per come si interpretano adesso – sono unidirezionali, ma – va detto – sono un fenomeno molto più sfumato, che può generare condizionamenti e vantaggi per chiunque. La cosa fondamentale è capire la fonte che diffonde una certa notizia. Un’informazione può essere brandita come un remo infuocato, è fondamentale stare attenti al fenomeno del Cherry Picking (ovvero presentare solo argomentazioni di parte), ma questo avviene sia per i “pro” che per i “contro” di un argomentazione. Quindi, chi fa informazione può inciampare – volontariamente, o involontariamente – nel Cherry Picking, accreditando o screditando altre fonti a proprio vantaggio, anche se le fonti screditate possono avere una credibilità. Sopravvalutare (con una esposizione massiva) un certo punto di vista, non è sempre garanzia di veridicità. È fondamentale esporre tutti i punti di vista, nel migliore dei modi, i più strutturati e argomentati, “pro” e “contro”, di ogni tema. Questo è giornalismo. Il resto è marketing».

Negli anni 70 l’eroina ha segnato rovinosamente i giovani che ne hanno fatto uso e ne sono rimasti vittime: c’è una responsabilità di Stato?
«Il concetto di Stato è ampio, ci sono costole, sottogruppi, apparati deviati. Questo sì. In quel momento storico l’Italia era il paese determinante per gli equilibri europei e occidentali. Qualcosa si muoveva già nella società degli anni 60-70’, c’era voglia di sperimentare stati di coscienza superiori, esplorare il corpo, le relazioni, e in questo fermento s’è inserita l’operazione, usando le dinamiche culturali già capillari nella società. Non solo la generazione di chi aveva vent’anni negli anni 70’ è stata travolta dal buco, ma anche quella degli 80’, s’è creata una voragine profonda, che ha invaso un ventennio. C’erano anche altri stupefacenti, come l’LSD, la fratellanza dell’amore eterno, gruppi cooptati per finalità diverse da quelle che apparivano in superficie».

 Cosa ha insegnato e quanti segni ha lasciato nella società l’esperienza dei ragazzi degli anni 70?
«La volontà di scrivere un romanzo-noir, e non un saggio, nasce proprio dalla voglia di creare un ponte invisibile tra generazioni inconsapevoli. Le dinamiche sono universali, di solito i giovanissimi hanno una conoscenza limitata della realtà, frammentaria, parziale, è più complicato scegliere con consapevolezza. Spesso i giovani non si fidano delle proprie esperienze e delegano gran parte del proprio pensiero a un’ideologia, che anestetizza le percezioni azzerando le analisi della realtà, o almeno appiattendo, per farle entrare nella scatola dell’ideologia prescelta. Purtroppo la realtà è estremamente complessa e mutevole, ci sono cose buone in quasi tutte le ideologie, ma quello che manca è la coerenza di base che renda univoca l’una e l’altra, un pò come voler unificare la relatività ristretta e la teoria della relatività generale. La narrazione ha uno stile pensato anche per gli under 30, under 20, non è necessario aver vissuto quel periodo per comprenderlo, è utile – anzi – poterlo valutare con un occhio esterno, e riconoscere quei frammenti di storia».

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