12 March 2025
/ 7.02.2025

Quanti Almasri ci aspettano nel nostro futuro?

Un singolo Osama Njeem Almasri è stato capace di creare seri problemi al governo italiano e ancor di più ai cittadini libici, visto che nei confronti del generale è stato spiccato un mandato d’arresto della Corte dell’Aja con l’accusa di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra cui omicidio, tortura, stupro e violenza sessuale. Ma quanti Almasri ci aspettano nel nostro futuro?

In realtà questa è la domanda centrale, anche se l’attenzione è sull’immediato: sottrarre alla galera e far rimpatriare con gli onori di un volo di Stato italiano un personaggio del genere è una scelta che difficilmente poteva passare inosservata. Se per Bruno Vespa tutto è nella norma (“In ogni Stato si fanno delle cose sporchissime, anche trattando con i torturatori, per la sicurezza nazionale”), c’è una questione di sostanza e una questione di forma. La sostanza verrà misurata dallo scontro in atto tra il governo italiano e la Corte Penale Internazionale, anche se il dettaglio delle accuse al generale libico lascia poco spazio alla fantasia. La forma si commenta da sé: un governo che vuole “fare cose sporchissime” ha interesse a esibirle come ha fatto la squadra messa in piedi da Giorgia Meloni riportando il generale libico a Tripoli con tutti gli onori, guardie del corpo incluse?

Ma, andando al di là del singolo caso, qual è la via migliore per difendere la “sicurezza nazionale” invocata da Bruno Vespa? Probabilmente eliminare l’aggettivo. Ha senso immaginare di costruire un muro attorno alle frontiere nazionali in un bacino come quello del Mediterraneo su cui si affacciano più di 20 Paesi con una popolazione di mezzo miliardo di persone? Con il lato meridionale e orientale di questo bacino scossi da una crisi che si aggrava di anno in anno?

Nella striscia di Gaza due milioni di palestinesi sopravvivono a stento dopo più di un anno di bombardamenti, in mezzo a macerie che nascondono migliaia di morti, con il servizio sanitario al collasso, un’epidemia dietro l’altra, più di 50.000 bambini sotto i 5 anni che secondo l’Unicef soffrono di malnutrizione acuta.

A meno di 200 chilometri di distanza la Siria non riesce a uscire dalla lunga crisi che nasce da una combinazione di fattori politici, economici, sociali e geopolitici che hanno portato alla guerra civile nata nel 2011, nel contesto delle Primavere arabe. Ma che è stata esasperata da un periodo di cinque anni di siccità acuta iniziata nel 2006 che ha costretto oltre un milione e mezzo di persone a lasciare le loro case per andare a ingrossare le periferie urbane senza lavoro.

Il Mediterraneo è una polveriera che ha alle spalle il Sahel, una delle aree più vulnerabili alla crisi climatica che sta aggravando problemi già esistenti come la povertà, l’insicurezza alimentare, i conflitti. Entro il 2050, si prevede che l’aumento della temperatura di 2 o 3 gradi renderà molte aree inabitabili, mettendo in moto migrazioni di massa.

Una parte delle conseguenze di questi processi non può più essere evitata. Ma c’è ancora spazio per arginarli riducendo le cause della crisi climatica (abuso di combustibili fossili e deforestazione) e ricucendo il tessuto sociale che si sta sfibrando (sia con il ripristino di equilibri produttivi tradizionali che con lo sviluppo di elementi di contemporaneità come il web e le rinnovabili).

Lavorare per una prospettiva di difesa climatica e sociale può alimentare scambi economici e sociali che distribuiscono equamente vantaggi migliorando i rapporti tra le sponde del Mediterraneo. Pensare di contenere con la forza milioni di disperati è un azzardo pericoloso.

 

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