29 Gennaio 2025
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Cronaca, Esteri

Trump di ieri e di oggi

12.11.2024

Foto courtesy di Eduard Garcia

La vittoria repubblicana appare meno ampia di quanto era sembrata nelle prime ore di mercoledì 6 novembre. Si battaglia sui seggi, ma, forte dell’esperienza del passato, Donald Trump mette in prima linea un assetto di duri e fedelissimi. Al lavoro i transition teams per assicurare un ordinato passaggio del potere. Ultimo aggiornamento.

Analisi della sconfitta da una parte, formazione della squadra dall’altra. A una settimana dalla vittoria di Donald Trump, è ancora in corso lo spoglio dei voti per la Camera dei rappresentanti per vedere se i repubblicani riusciranno a conquistarne il controllo. Dei 435 seggi i repubblicani ne hanno per ora conquistati 213 e i democratici 205: chi arriverà a 218 controllerà la Camera bassa e le sue commissioni.

Nel frattempo, i democratici hanno “riconquistato” un seggio senatoriale in Arizona, la cui assegnazione ai repubblicani sulla base delle proiezioni non è stata confermata dallo spoglio. La camera alta è ora divisa 52-48, con la perdita democratica contenuta in due soli seggi. La vittoria repubblicana, insomma, è meno ampia di quanto non fosse apparso nelle prime ore di mercoledì 6 novembre. Poiché la vittoria di Trump non è in dubbio, il prossimo presidente è già al lavoro per costruire la propria squadra. Come nel 2017, c’è chi è pronto a scommettere che le promesse più radicali saranno stemperate e chi, invece, ritiene che saranno applicate con la massima forza possibile. In effetti, rispetto a otto anni fa, Trump parte non solo con una maggior conoscenza delle dinamiche del potere a Washington, ma anche con una organizzazione strutturata per affrontarle e una rete di rapporti interni ed esterni con i quali e attraverso i quali implementare il più possibile il programma scritto per lui dalla Heritage Foundation. Qualche indicazione viene dalle prime nomine. La chief of staff, una via di mezzo tra il capo di gabinetto e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sarà Susie Wiles, fedelissima che ha gestito la campagna elettorale e lo ha portato alla vittoria. Più indicativa, sotto il profilo politico, la voce che vedrebbe Stephen Miller, noto per le sue posizioni durissime sull’immigrazione, quale vice della Wiles. Segretario di Stato, ovvero ministro degli Esteri, sarebbe Marco Rubio, altro falco, la cui nomina riconoscerebbe tra l’altro il ruolo avuto dagli ispanici nell’elezione di Trump. Ambasciatrice all’ONU dovrebbe diventare Elise Stefanik, deputata di New York, nota per le sue posizioni estreme, in particolare a favore di Israele.

Quale consigliere per la sicurezza nazionale, una sorta di superministro di raccordo tra i vari dipartimenti che partecipano alla sicurezza, potrebbe andare Mike Waltz, deputato della Florida con un passato nelle forze speciali e già consigliere di Dick Cheney durante la presidenza Bush. Waltz è noto per essere fortemente anti-cinese e aperto, al contrario, a trattare con la Corea del Nord. Alla sanità potrebbe andare Robert F. Kennedy Jr, bizzarro discendente della dinastia, noto per la posizione anti-vaccinista. All’EPA, l’agenzia per la protezione dell’ambiente, dovrebbe andare Lee Zeldin, con il compito di smantellare quante più norme e regolamenti possibile.

Anche se il condizionale è d’obbligo, il quadro che emerge sembra dar ragione a quanti immaginano che il secondo mandato sarò molto più duro del primo. In ogni caso, già nelle prossime ore saranno al lavoro i transition teams, i gruppi di lavoro dei vincitori che nei gangli degli uffici federali affiancheranno il personale dell’amministrazione Biden per assicurare un ordinato passaggio di consegne e l’immediata operatività del nuovo governo. Comunque vada, nel giro di nove settimane il rebus sarà sciolto e tutti – governi e organizzazioni internazionali, leader politici e opposizioni – dovranno decidere come affrontare le politiche reali di Trump, quali che esse siano.

Credito fotografico: with special thanks to  (Eduard Garcia)

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