4 Dicembre 2024
Milano, 4°

Personaggi

Vito Teti racconta la restanza

03.12.2024

Gli studi dell’antropologo Vito Teti sulla restanza hanno riscosso enorme successo e stimolato la riflessione su quelle delicate dinamiche di partenza e ritorno al proprio luogo di origine.

La restanza è il fenomeno sociale che riguarda chi decide di rimanere a vivere nei piccoli borghi, nei centri quasi abbandonati ma potenzialmente ricchi di opportunità.

Lo dice con fermezza Vito Teti. «Mi guarderei bene dal mettere in contrapposizione “restanza” con “erranza”» e credo che basti questa frase a rendere il senso della complessità che c’è dentro al fenomeno. Un primo e poco ragionato uso di “restanza” risale al suo libro Pietre di pane (Quodlibet, 2011): «Il termine in sé lo avevo adoperato quasi senza troppa importanza, e invece diventa il più osservato, privilegiato, indagato perché rispondeva a certe sensazioni e vissuti che le persone avevano dentro e a cui non sapevano dare un nome. E quello che avevano dentro stava diventando un problema culturale, sociale, politico». La “restanza”, come ha deciso di chiamarla il suo teorico, l’antropologo Vito Teti, ha a che fare con il desiderio di ritornare a vivere dove si è nati ma in modo non apatico e passivo, bensì con forza, con speranza, con consapevolezza e voglia di fare, perché il “restante” è lontano dall’essere una persona ferma e involuta, è, piuttosto, un viaggiatore, in senso spaziale e in senso socioculturale. La restanza è senso di riscatto che ha origine dall’esperienza dolorosa della partenza, ed è diritto a poter tornare a vivere le proprie radici senza dover fare quotidianamente i conti con il tarlo dell’insoddisfazione.

«Essere restante e partente, essere doppio, non saper stare fermo, è la mia storia personale. Questo motivo del restare e tornare, che appartiene al mondo meridionale almeno dalla seconda metà dell’800, diventa la mia storia, la mia cultura. In qualche modo la eredito». Ripercorrendo con precisione chirurgica le tappe principali della sua storia personale, Teti mi spiega che per lui essa nel tempo è diventata un’occasione per osservare e meglio comprendere le trame su cui si cuce l’essenza della restanza, trame che aveva già, in certo modo, intercettato con i suoi studi etnografici sui paesi abbandonati e sulle tradizioni popolari. Oggi Teti è docente di Antropologia all’Università della Calabria e vive nel suo paesino d’origine, San Nicola da Crissa, ma è stato, in passato, anche lui un “partente”. L’università a Roma – dove si trasferisce per studiare Filosofia e dove costruirà una salda rete di amicizie –, poi una borsa di studio in Francia, e dopo il lavoro in Sicilia e in giro per il sud. È un adulto quando arriva l’opportunità di proseguire la carriera accademica in Calabria, e lui, che sentiva di appartenere a un solo posto, sceglie di tornare.

Se «stare in un posto significa assumertelo» – cioè, prendersene cura nelle tante e diverse sue dimensioni memoriali, culturali, sociali –, tornare o restare in un luogo diventano un atto politico di rivoluzione, sono evoluzione. Le persone, spiega, «possono decidere di restare per una scelta affettiva, per un amore per il luogo, per esprimersi e rendersi utili per la propria terra». Le persone tornano quando e se vedono delle opportunità di vita, di lavoro, di socialità, e «allora diventa una scelta quella di restare e tutti dovrebbero avere il diritto di poter scegliere se restare o andare via. Se invece desertifichi i luoghi, chiudi i servizi e i negozi, le strade sono vuote e rotte, allora i giovani vanno via, sono costretti ad andarsene. Mettiamoli nelle condizioni di scegliere e poi vedremo se vogliono andare via lo stesso, se vogliono restare. Io sono per dare una connotazione politica forte a questa parola: è il diritto di stare nel luogo in cui si è nati».

Condividi