31.05.2024
In Italia è a rischio la libertà d’informazione? Riflette sul tema Guido Camera, avvocato penalista specializzato in diritto dell’informazione, e autore di “Lezioni di diritto dell’informazione e deontologia della professione giornalistica”.
Voleva fare il cronista, ma alla fine, forse per uno scherzo del destino, è diventato avvocato e da venticinque anni difende in tribunale i professionisti dell’informazione. «I giornalisti sono figure indispensabili per la società – dice l’avvocato –. Fanno capire alle persone come funziona il mondo e consentono alla democrazia di realizzarsi attraverso la partecipazione consapevole dei cittadini alla cosa pubblica». Si tratta di «mestiere entusiasmante e difficile, che deve essere esercitato in maniera terza, imparziale e indipendente». Un lavoro così importante da trovare essere riconosciuto dalla Costituzione all’articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».
Nel 2024 il tema del carcere per i giornalisti torna al centro del dibattito pubblico. Poche settimane dopo la proposta di Fratelli d’Italia di prevedere fino a quattro anni e mezzo di reclusione per diffamazione, uno storico cronista de Il Giornale viene condannato a otto mesi di carcere e 6.500 euro da un giudice monocratico del tribunale di Nola.
Avvocato Camera, stiamo assistendo a un impoverimento del diritto d’informazione?
Dobbiamo fare riferimento a quando previsto dalla Corte costituzionale nel 2020 (ordinanza 132/2020) e nel 2021 (sentenza 150): il carcere o le sanzioni estremamente severe rischiano di avere un esito dissuasivo nei confronti di chi esercita la professione di giornalista. Tanto è vero che, allo scopo di evitare questo “chilling effect”, ossia la censura preventiva di derivazione giurisprudenziale, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la pena detentiva deve essere solo riservata ai casi gravi di incitamento all’odio, mistificazione o manipolazione della realtà dei fatti.
Qual è la norma vigente in Italia che disciplina i casi di mala informazione?
Il Codice penale, degli anni ‘30, e la legge sulla stampa degli anni ‘40. Si tratta di norme ormai vecchie che sostituite con previsioni adeguate al presente e ai nuovi canali di comunicazione. Non solo, oggi incombono forme di comunicazione manipolatrice e sistematica, non giornalistica, che hanno lo scopo di influenzare l’opinione pubblica e che devono essere sanzionate in modo consono al disvalore e alla pericolosità delle condotte.
Cosa prevede il Codice penale nel caso del reato di diffamazione?
L’articolo di riferimento è il 595, terzo comma, che punisce con la pena alternativa della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa non inferiore a 516 euro la multa con il mezzo della stampa o con qualsiasi mezzo di pubblicità, tra i quali c’è anche il web. La Consulta, attraverso la sentenza 150/2021, ha invece censurato l’art. 13 della L. n. 47/1948 e l’art. 30, comma 4, della legge 6 agosto 1990, n. 223 che stabilivano una circostanza aggravante per la diffamazione commessa con il mezzo della stampa e consistita nell’attribuzione di un fatto determinato. La pena in questo caso era più severa perché era quella cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a 258 euro.
È cambiata nel tempo la posizione dei giudici?
La giurisprudenza italiana si è progressivamente adeguata agli standard europei. Negli ultimi dieci anni non mi è mai capitato di assistere alla condanna di un giornalista alla reclusione. Questa professione ha la stessa criticità di un tempo con la distinzione che oggi c’è una consapevolezza della magistratura di quanto prevista dalla CEDU.