La parola “artificiale” può assumere una connotazione negativa. In realtà, saper riprodurre beni presenti in natura amplia le risorse a nostra disposizione. Il caso del sangue creato in laboratorio o, meglio, delle cellule staminali capaci di trasformarsi in globuli rossi, è una sfida che vede impegnati da almeno trent’anni i ricercatori di tutto il mondo. Nel 2017 gli studiosi dell’Università di Bristol e del NHS Blood and Transplant del Regno Unito hanno generato in vitro una serie di cellule capaci di diventare “sangue artificiale”. La soluzione, potendo raggiungere una produzione su larga scala e a bassi costi, rappresenterebbe una risposta alle esigenze dei Paesi non autosufficienti e a quelle delle persone con gruppi sanguigni rari. I globuli rossi sono stati prodotti da cellule staminali ematopoietiche (HCS) isolate dal midollo osseo dei donatori. Si tratta di cellule non ancora mature né differenziate dalle quali prendono origine anche le piastrine e le cellule del sistema immunitario. Sono impiegate nella terapia standard di malattie del sangue come leucemia, linfomi e mieloma multiplo.
Le prime mini-trasfusioni su esseri umani, equivalenti a due cucchiaini da caffè, hanno dato risultati preliminari buoni, non avendo causato effetti collaterali in volontari che hanno preso parte al trial clinico. La finalità dello studio era quella di comprendere la durata della loro permanenza nel corpo del ricevente. Una persistenza maggiore rispetto alla norma, auspicabile perché si tratta di cellule “giovani”, sarebbe importante in pazienti affetti da anemia falciforme o da talassemia. Mentre alcune società statunitensi sperano di riuscire a sviluppare e mettere in commercio un sostituto della nostra linfa vitale, nel 2023 anche la DARPA, l’agenzia americana che si occupa di biotecnologie, difesa e informazione, creata nel 1958 per studiare soluzioni tecnologiche all’avanguardia in ambito militare dopo il lancio del primo satellite artificiale russo, ha annunciato una sovvenzione da 46 milioni di dollari per la ricerca a un consorzio guidato dall’Università del Maryland.
Si pensa al rimedio per i campi di battaglia e per le aree rurali dove sarebbe sufficiente mantenere in vita il flusso di ossigeno fino all’arrivo in ospedale. L’esigenza di individuare un’alternativa al sangue umano arriva da un tempo più lontano. Tra il 1873 e il 1880, quando ancora non erano stati scoperti i gruppi sanguigni, il medico americano Theodore Gaillard Thomas ebbe l’idea di trasfondere del latte in pazienti con emorragie gravi, all’epoca condannati alla morte. Nel 1875 ebbe luogo la prima trasfusione di 175 millilitri di latte vaccino in una donna che soffriva di emorragia uterina. Mal di testa, aumento del battito cardiaco e febbre alta a parte, la donna si riprese dopo una settimana. La pratica proseguì e Thomas pubblicò i suoi studi sulle principali riviste mediche, prevedendo, per le sette trasfusioni di latte compiute con “successo”, un futuro “brillante e utile”.