17 Maggio 2025
/ 16.05.2025

La barriera linguistica uccide la biodiversità

Uno studio rivela la dittatura della lingua inglese nella letteratura scientifica. Gli articoli pubblicati in lingue diverse dall’inglese ricevono un numero di citazioni drasticamente inferiore, anche se scientificamente validi.

In un mondo dove un milione di specie è a rischio, il tempo per agire è poco e le informazioni sono oro. Ma cosa succede se parte di queste informazioni preziose rimane sepolta, invisibile a chi ne ha bisogno? È quanto emerge da un recente studio dell’Università del Queensland (UQ), che lancia un allarme chiaro: la lingua è ancora oggi un ostacolo concreto alla conservazione delle specie.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Conservation Biology, ha esaminato 500 articoli scientifici riguardanti la protezione e la gestione di uccelli, mammiferi e anfibi in pericolo. I risultati sono sorprendenti ma soprattutto inquietanti: gli articoli pubblicati in lingue diverse dall’inglese ricevono un numero di citazioni drasticamente inferiore, anche se scientificamente validi. Gli articoli in lingua inglese avevano una media di 37 citazioni, mentre gli articoli in altre lingue zero.

A condurre la ricerca è stata Kelsey Hannah, dottoranda alla UQ, che spiega così il fenomeno: “Il numero di citazioni rimane basso anche quando il disegno dello studio è solido o quando le specie trattate sono in pericolo. Questo suggerisce che la scarsa visibilità e le barriere linguistiche ostacolano la diffusione di informazioni fondamentali”.

Uno degli esempi più emblematici è uno studio giapponese del 2011 sulla cicogna orientale, una specie a rischio in tutta l’Asia orientale. Eppure, il lavoro è stato citato solo in giapponese, escludendo potenziali lettori e decisori in Cina, Corea e Russia.

Il problema, evidenzia lo studio, non è la qualità della ricerca, bensì la sua accessibilità. Gli articoli in altre lingue hanno ottenuto più citazioni solo se accompagnati da un abstract in inglese. Una piccola modifica, certo, ma con un impatto enorme: in questi casi, le citazioni aumentano del 50%.

Il professor Tatsuya Amano, coautore dello studio e docente alla School of the Environment dell’UQ, sottolinea un punto fondamentale: “Gran parte della biodiversità mondiale si trova in aree dove l’inglese non è la lingua principale. Ignorare le ricerche condotte in quelle lingue significa escludere dati cruciali, conoscenze locali e soluzioni adattate ai contesti specifici”. È un dato che mette in discussione la validità dell’intero sistema della scienza globale se, di fatto, la lingua continua a essere un filtro elitario e occidentale.

Una scienza più inclusiva è possibile

Se davvero vogliamo affrontare la crisi della biodiversità con efficacia, è essenziale costruire una scienza più inclusiva e accessibile, non solo geograficamente, ma anche linguisticamente.

Le soluzioni esistono e sono semplici: promuovere l’abitudine a scrivere abstract multilingue; incentivare le riviste scientifiche a pubblicare articoli anche in lingue locali o ad affiancarvi versioni inglesi; creare banche dati tradotte e strumenti di ricerca che integrino le fonti scientifiche non anglofone.

Ma anche i singoli scienziati e le scienziate possono fare la loro parte. È tempo che chi lavora nel mondo accademico e della ricerca inizi a cercare e citare articoli pubblicati in altre lingue. A volte, la risposta a un problema urgente potrebbe già esistere, solo che non è stata scritta in inglese. L’inaccessibilità linguistica non è solo una questione accademica: può rallentare la risposta alle crisi ecologiche, ostacolare la protezione degli habitat e, in definitiva, condannare alla scomparsa intere specie.

Per questo, conclude lo studio, la scienza della conservazione deve diventare, anche, una scienza della traduzione, della cooperazione e dell’apertura culturale. Non ci sarà un futuro sostenibile se continuiamo a ignorare metà delle soluzioni solo perché non sono scritte in inglese.

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