21 Novembre 2024
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Memoria, Musica, Storie

Quando i Pink Floyd suonarono il tempo fermo di Pompei

14.06.2024

Fu il racconto di un concerto, senza pubblico. Così, da Londra la strumentazione approda nel Parco Archeologico, insieme a quattro ragazzi inglesi di buona famiglia con i capelli lunghi: sono i Pink Floyd. La storia.

Il tempo scorre, poi ritorna. La magia di un luogo unico come Pompei, capace di trasformare in presente la carica emozionale di un passato mai domo, diventa realtà. Le figure dominati dalla lava si rianimano e abitano storie millenarie. Non sapremo mai se Decimus Octavius Quartio, amico di Plinio il Vecchio, allontanatosi dalla sua domus immersa in un giardino dedicato alla Dea Iside, percorrendo Via dell’Abbondanza, si sia affacciato nel vicino Anfiteatro a curiosare su un evento speciale.

E se non il suo spettro, ma qualche suo discendente, con un bel salto temporale, era lì, il 4 ottobre del 1971. C’erano, ci sono (miracolo del tempo immobile, eppur dinamico, pompeiano), quattro ragazzi inglesi di buona famiglia con i capelli lunghi: sono i Pink Floyd. All’epoca, sulla strada di un crescente successo, sublimato poi dall’album “The dark side of the moon”, in cui il suono si fa siderale e anticipa l’era digitale, sfiorando temi come alienazione e follia. Assecondano l’intuizione del regista Adrian Maben d’un film d’arte tra le rovine della città sepolta: i silenzi e il frinire delle cicale, avrebbero fatto da sfondo alla band, in contrapposizione (chissà) al frastuono, trascinante ideali, di Woodstock. A patto, però, di suonare rigorosamente dal vivo con i loro amplificatori e registratori dalla tecnologia avanzata. Così, da Londra la strumentazione approda nel Parco Archeologico. Viene noleggiato un pianoforte a coda presso la ditta Napolitano, dopo aver vinto le resistenze di chi temeva fortemente che si rovinasse per l’umidità all’esterno e ignorava l’esistenza dello stesso gruppo (Pink Floyd, chi?). One, two, three: ciak! Ma non c’è corrente elettrica sufficiente. Allora, viene snodato un cavo lungo centinaia di metri che collega il Municipio all’area ogivale dell’Anfiteatro. La troupe cinematografica è pronta a cogliere le suggestioni di un gruppo rock che si esibisce davanti a spalti vuoti, con quelle gradinate smozzicate dal tempo che pure avevano accolto migliaia di spettatori vocianti tra esibizioni ludiche e combattimenti di gladiatori. Nell’arena: solo i musicisti protesi a riverberare un’emozione visionaria (il passato che ritorna) ed i tecnici indaffarati a fissare il flusso sonoro su un registratore mobile a 8 tracce. One of These Days, A Saucerful of Secrets, scandiscono il tempo. Roger Waters canta, mentre le note del suo basso Fender Precision sembrano dardi infuocati verso il Vesuvio sovrastante. Il suono si espande a inseguire il virtuosismo pacato delle tastiere “schiaffeggiate” da Richard Wright, e di rimbalzo si sprigiona l’essenzialità energica ai timpani e ai tamburi di Nick Mason (il batterista), proprio quando all’unisono David Gilmour si strascina nella polvere, e per contrappasso le note urlate ad effetto della sua chitarra salgono al cielo.

L’amatissima Echoes pt.1 (lunga 23 minuti), s’insuffla anch’essa in sottofondo, trasformando il passaggio voluto dalla psichedelica degli esordi ad una vellutata, prodigiosa potenza basata su timbriche irreali, che da siderali si fanno oniriche, per sollecitare i sensi e infiammare gli animi di chi ascolta. E odorosa dei pini mediterranei, d’un tratto, la magia di Pompei riannoda i fili del rito iniziatico di suonatori di flauto e lira fissati negli affreschi della non lontana Villa dei Misteri. Tra la solfatara di Pozzuoli e le immagini registrate in loco (con l’appendice parigina in studio), la band sembra confondersi con le statue, sulla scia d’una musica evocata dalle rovine per far riaffiorare timori ed ossessione, proprio come nella città distrutta del 79 d.C.. Pink Floyd: Live at Pompeii. Un mito dentro il mito. Irripetibile.

 

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