04.02.2025
In Italia 7 città su 10 fuorilegge secondo la direttiva che entrerà in vigore tra 5 anni
La micromobilità è stata uno dei bersagli principali della riforma del codice della strada voluta dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini ed entrata in vigore nel dicembre scorso. Invece di correggere alcuni errori di gestione (ad esempio i monopattini non possono essere abbandonati ovunque) sono stati penalizzati i mezzi che inquinano di meno o zero: sono stati tolti spazio e sicurezza alle due ruote (meno piste ciclabili, meno aree a velocità limitata).
Contemporaneamente continua l’offensiva per ritardare il passaggio dai veicoli fossili alla mobilità elettrica. E siccome questo governo spiega un giorno sì e l’altro pure che si batte per gli interessi degli italiani dovremmo dedurre che i problemi d’inquinamento sono stati superati. Altrimenti il rallentamento della transizione ecologica nel campo della mobilità equivarrebbe a un aggravamento di una situazione già insostenibile, con circa 50 mila morti da inquinamento atmosferico all’anno in Italia secondo i dati dell’Agenzia europea dell’ambiente.
Però il quadro che emerge dal rapporto “Mal’Aria di città 2025” di Legambiente non è affatto tranquillizzante. Nel 2024 sono stati 25 i capoluoghi di provincia a superare il limite di 35 giorni con una concentrazione media giornaliera superiore a 50 microgrammi per metro cubo.
È vero che la situazione appare migliore se prendiamo l’altro parametro di riferimento di legge: la media annuale che è 40 microgrammi per metro cubo di polveri sottili (PM10) non è stata superata in nessuna città capoluogo di provincia. Il problema però è che non sono le città ad andare bene, è la legge che zoppica su questo punto perché non ha registrato l’evoluzione dell’analisi scientifica e medica sulla soglia d’allarme. Infatti la nuova direttiva europea fissa parametri diversi. Nell’arco di cinque anni dovremo rispettare quei valori. Ce la faremo? Vediamo a che punto siamo.
La direttiva europea parte dall’analisi dei valori suggeriti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), quella che a Trump non piace ma che esprime il giudizio della comunità scientifica globale. Nelle linee guida L’Oms indica in 15 microgrammi per metro cubo la media annuale da non superare. Se fissiamo questo paletto, cioè se diamo retta a chi si occupa della nostra salute, il 97% dei capoluoghi di cui si è riusciti a ricostruire la media annuale (95 su 98 capoluoghi esaminati) non rispetta il valore di sicurezza.
La direttiva però è un atto politico, non solo sanitario. Dunque ha fatto dei compromessi, ha ceduto qualcosa sul fronte della sicurezza sanitaria per rendere più morbida la transizione e dare più tempo al sistema produttivo per riorganizzarsi. Dal 2030 il limite stabilito come media annuale da non superare scenderà dagli attuali 40 microgrammi per metro cubo a 20 (non 15 come suggerisce l’Oms). E come va con questi parametri ammorbiditi rispetto al rigore dell’analisi scientifica?
Sempre male. “Le nostre città sono ancora distanti da quei valori, con 19 capoluoghi che dovranno ridurre le concentrazioni attuali tra il 28% e il 39%: tra le più indietro in questo percorso ci sono Verona, Cremona, Padova, Catania, Milano, Vicenza, Rovigo e Palermo”, sottolinea Legambiente. “Con le norme che entreranno in vigore tra 5 anni, 70 città italiane risulterebbero fuorilegge. Ad oggi solo 28 rispettano il valore previsto al 2030 e solo 3 rispettano il valore indicato dall’Oms”.
Anche il biossido di azoto registra livelli preoccupanti, con il 45% dei capoluoghi italiani già oltre la soglia prevista per il 2030. A Napoli, Palermo, Milano e Como, la riduzione necessaria per rientrare nei limiti europei oscilla tra il 40% e il 50%.
Per uscire dall’emergenza smog, Legambiente individua quattro priorità. Primo: ripensare la mobilità urbana potenziando il trasporto pubblico elettrico, incentivando la mobilità dolce e limitando i veicoli più inquinanti nei centri urbani con Low Emission Zones e la strategia Città30. Secondo: abbandonare progressivamente caldaie a gasolio e metano in favore di pompe di calore a gas refrigeranti naturali. Terzo: ridurre le emissioni del settore agricolo e zootecnico, specialmente nel bacino padano, limitando gli allevamenti intensivi e applicando buone pratiche di gestione. Quarto: integrare le politiche su clima, energia e qualità dell’aria.
I rimedi ci sono e in tanti Paesi si stanno mettendo in pratica. Non farlo vuol dire assumersi una responsabilità pesante.