18.02.2025
Una notizia potenzialmente negativa, una potenzialmente positiva. Con la decisione dell’amministrazione americana di ritirarsi dall’accordo di Parigi ancora fresca – decisione che sarà seguita anche da Nuova Zelanda e probabilmente Argentina, Paesi con governi conservatori ed ecoscettici – il mondo s’interroga con crescente preoccupazione sulle prospettive della lotta alla crisi climatica.
Ndc, con calma
Iniziamo con gli Ndc (acronimo che tradotto in italiano significa contributi determinati a livello nazionale), i tagli volontari alle emissioni climalteranti, cardine dell’accordo di Parigi del 2015, giunti alla loro terza tranche, relativa al 2030-2035. Gli Stati si erano impegnati a presentarli all’Unfccc entro il 10 febbraio 2025, in modo da arrivare “con i compiti” fatti alla prossima Cop a Belen, in Brasile.
Le prime due tornate di Ndc si sono svolte nel 2015 e nel 2020-21. La scadenza del 10 febbraio 2025 per il terzo ciclo di Ndc è parte del “bilancio globale” dell’azione per il clima condotto nel 2023. La scadenza anticipa di nove mesi l’inizio della Cop 30 di Belen. Come anche per Ndc 1 e 2, quasi tutti gli Stati non hanno rispettato la scadenza temporale e se la sono presa comoda. Considerando che gli Ndc passati hanno prodotto un topolino (gli attuali Ndc, validi fino al 2030, produrrebbero un taglio di appena il 2,6% delle emissioni al 2030, a fronte di un taglio necessario del 43%), serviva uno scatto, che ancora non si vede.
Al 10 febbraio solo 13 delle 195 parti firmatarie dell’Accordo di Parigi hanno pubblicato i loro nuovi piani di riduzione delle emissioni. Secondo l’analisi di Carbon Brief, i Paesi che non hanno rispettato la scadenza rappresentano l’83% delle emissioni globali e quasi l’80% dell’economia mondiale. Il 12 febbraio si è aggiunto il Canada, e gli arrivi sono attesi con calma. Oltre agli Stati Uniti (che avevano presentato il loro Ndc con Biden ancora presidente) gli unici grandi emettitori a presentare obiettivi per il 2035 sono stati il Canada, il Brasile, il Regno Unito e gli Emirati Arabi Uniti. Anche le Isole Marshall, Singapore, l’Ecuador, Santa Lucia, Andorra, la Nuova Zelanda, la Svizzera, lo Zimbabwe e l’Uruguay hanno presentato i loro piani, ma tutti producono meno dello 0,2% dell’anidride carbonica mondiale.
L’analisi di Climate Action Tracker
E i quattordici perderanno presto il Paese più importante, gli Stati Uniti, visto che Trump ha invertito la linea americana. Anche sugli impegni degli altri, gli addetti ai lavori sono scettici. L’analisi del gruppo di ricerca sul clima Climate Action Tracker ha rilevato che i nuovi NDC per il 2035 di Brasile, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti e Svizzera non sono “compatibili” con un percorso di limitazione del riscaldamento globale a 1,5C. Climate Action Tracker ha invece osservato che il nuovo NDC del Regno Unito – che promette di tagliare le emissioni al 2035 di ben l’81% rispetto ai livelli del 1990 – è “compatibile con 1,5°C”, ma ha aggiunto che il Paese “dovrebbe aumentare la spesa per aiutare altri Paesi a ridurre le proprie emissioni” per fare la sua “giusta parte” nel raggiungimento degli obiettivi di Parigi. Non è un bel quadro, anche se certamente Unione Europea e Cina, specialmente la prima, faranno la loro parte.
Il segretario di Unfcc, Simon Stiell da parte sua ha quasi l’obbligo dell’ottimismo e non drammatizza: “La stragrande maggioranza dei Paesi si prenderà più tempo per garantire che questi piani siano di prim’ordine, conto di ricevere la maggior parte al massimo entro settembre, così da poter presentare un report a Belen”. Speriamo.
La Cina si avvicina
A ravvivare un po’ il quadro color nero carbone, una serie di notizie che vengono dal maggiore emettitore mondiale di gas serra, la Cina. Notizie che in larga parte fanno sperare che non tutto sia perduto. Secondo una nuova analisi di Carbon Brief, le emissioni di anidride carbonica (CO2) della Cina si sono mantenute “al di sotto dei livelli dell’anno precedente negli ultimi 10 mesi del 2024” grazie a “un’impennata record dell’energia pulita” (ben 357 GW di solare ed eolico).
L’autore Lauri Myllyvirta, analista capo del Centro per la ricerca sull’energia e l’aria pulita (Crea), ha detto che in Cina l’energia pulita “accelererà” nel 2025, poiché “i progetti eolici, solari e nucleari su larga scala corrono per essere completati prima della fine del 14° periodo di piano quinquennale”. Myllyvirta ha affermato che, insieme al rallentamento della crescita della domanda di elettricità, ciò dovrebbe spingere la produzione di energia elettrica da carbone a diminuire. Tuttavia, ha aggiunto che “un altro periodo di crescita della domanda industriale guidata dagli sforzi di stimolo del governo potrebbe cambiare questo quadro, in particolare se il crollo del settore immobiliare dovesse fermarsi e innescare una ripresa”. Ma si inizia ad intravedere la luce. In un’intervista pubblicata di recente su Carbon Brief, Wang Can, docente all’Università Tsinghua, ha assicurato che le emissioni cinesi sono “vicine al picco”.
I trasporti alternativi
Non solo. L’adozione di “trasporti alternativi” e i cambiamenti nell’economia cinese stanno determinando un rallentamento del consumo dei carburanti “senza precedenti storici”, con l’utilizzo di benzina, cherosene e gasolio – i tre prodotti più importanti del Paese – che sta scendendo “al di sotto dei livelli del 2021 e appena al di sopra dell’utilizzo del 2019”, riporta Bloomberg, citando l’ultimo rapporto mensile sul mercato petrolifero dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie).
L’Aie attribuisce i recenti guadagni economici del Paese, “meno intensivi di petrolio”, a un “crollo del settore edilizio” e a una “spesa per i consumi persistentemente sottotono”. Anche la Reuters riporta il nuovo rapporto dell’Aie con il titolo: “La domanda di carburante della Cina potrebbe aver superato il suo picco”. Nonostante l’installazione di nuove centrali a carbone prosegua, secondo diversi analisti la produzione di energia elettrica da centrali a carbone è “destinata a diminuire nel 2025 per la prima volta in un decennio”, anche se c’è cautela sul fatto che “condizioni meteorologiche estreme o una crescita industriale più forte del previsto potrebbero sconvolgere questa previsione”. Appesi ad un filo, appesi alla Cina. Così van le cose, nell’era di Trump.