Eppure Trump e l’estrema destra europea ci riescono benissimo. Hanno costruito le loro fortune elettorali fondendoli con un messaggio che più o meno suona così: “Non riesci ad arrivare alla fine del mese? La tua azienda è in crisi? È colpa delle regole dell’ambientalismo e del mondo woke, liberati di loro”.
D’accordo, la mossa è spregiudicata, concettualmente sbagliata, mirata alla distruzione e non alla costruzione. Ma conviene continuare a lamentarsi, o cercare di capire perché il consenso all’assalto selvaggio alle più elementari regole di convivenza sta avendo un successo fino a ieri inimmaginabile?
Per provare a capire conviene partire da alcuni errori reali, che vengono ingigantiti ad arte. Si ricavano anche dalle cronache politiche della settimana che si è conclusa. Prendiamo ad esempio due fatti. Il primo è il pacchetto Omnibus presentato dall’Unione Europea: due proposte di direttiva che modificano profondamente la regolamentazione sulla sostenibilità aziendale e sulla due diligence ambientale e sociale.
Questo pacchetto si è reso necessario perché la versione attuale delle norme sulla rendicontazione ambientale è da incubo, almeno per le piccole imprese che non possono permettersi i costi che quelle norme implicano non in termini di innovazione ma di contabilità. Alleggerire era necessario. Ma sulla spinta di questo alleggerimento di rendicontazione rischia di passare l’idea che bisogna alleggerire il contenuto della rendicontazione ambientale.
Qui sta il problema, nel confondere la forma della rendicontazione ambientale con la sostanza dell’innovazione ambientale. Sono due concetti diversi e attivano dinamiche che tendono a entrare in conflitto: più la forma della rendicontazione è leggera ed efficiente più la sostanza dell’innovazione può essere consistente. Se le risorse di una piccola o media azienda vengono drenate dalla burocrazia non sono più disponibili per dare operatività all’efficientamento energetico, all’ecodesign mirato a una maggiore circolarità della materia, alla progettazione innovativa.
Perché questa distinzione non viene colta? Perché in larga parte dell’immaginario politico resta dominante l’idea che tutela dell’ambiente e produttività siano agli antipodi. Una difficoltà che può essere superata solo dando dimostrazione pratica del contrario, dei vantaggi di un sistema di rendicontazione snello che permette di usare pochi parametri ambientali come punto di riferimento per misurare l’efficienza complessiva di un’azienda. Non miglioramento ambientale e competitività, ma miglioramento ambientale è competitività. Dimostrandolo con i risultati e non con le dichiarazioni.
Il secondo fatto da segnalare è la Cop16 sulla biodiversità che ha avuto una sessione bis a Roma. Lo scoglio principale – solo in minima parte superato – sono stati i soldi da investire sulla tutela. In parte perché ci sono aziende che hanno ancora una mentalità da frontiera, da far west: c’è sempre nuova terra da sfruttare quando quella già utilizzata è stata spremuta al massimo, basta spostare il confine, al massino si tratta di far sloggiare i nativi. Ormai però tutte le terre utili sono state occupate e sfruttate spesso oltre il limite della rigenerazione. Per continuare a usare le risorse bisogna investire nel loro mantenimento. La tutela del bene coincide con la tutela di chi lo utilizza per produrre.
Competitività può far rima con ambiente. A patto di darsi le regole giuste, evitando da una parte il dumping ambientale e dall’altra gli eccessi burocratici.