Più alberi per salvare il pianeta. È uno degli slogan preferiti della transizione ecologica, semplice e intuitivo: pianta un albero, salva il mondo. Eppure, come spesso accade, la realtà è molto più complicata. Perché riforestare davvero, oggi, è diventato un mestiere tanto ambizioso quanto pieno di ostacoli. Non bastano le buone intenzioni, non bastano i soldi. Servono semi, vivai, braccia, strategie, previsioni climatiche, e soprattutto tempo. Decenni. Forse secoli.
Negli Stati Uniti ogni anno bruciano milioni di ettari di foreste. E il divario tra aree distrutte dal fuoco e superfici effettivamente rimboschite si allarga. Dopo il gigantesco incendio del Cameron Peak in Colorado nel 2020, su quelle montagne carbonizzate nelle zone più colpite si contano più ceppi anneriti che nuovi germogli, dicono gli esperti del Servizio forestale del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. Colpa dei megaincendi, certo, ma anche del cambiamento climatico, che trasforma i microclimi e rende alcune aree inadatte a ospitare le stesse specie di prima. Colpa della siccità, delle ondate di calore, dell’erosione che porta via il poco suolo rimasto.
E poi ci sono i limiti strutturali: pochi semi raccolti, pochi vivai attivi, pochi operai formati per piantare. Negli Usa si stima che servano tre volte più piantine di quelle che si riescono a produrre oggi per colmare il fabbisogno da qui al 2050. In Canada e nel nord-ovest degli Stati Uniti, dove la piantumazione è spesso affidata a giovani studenti in cerca di guadagni estivi, la situazione è complicata. I vivai sono pochi, la mortalità delle piantine è alta, e spesso si pianta sempre e solo pino – perché cresce in fretta e costa poco – creando foreste artificiali, tutte uguali, poco resilienti e a bassa biodiversità.
La sopravvivenza si ferma al 25%
La sopravvivenza delle piante si ferma in media al 25%, ma in alcune zone scende al 13%. E quando le piantine sopravvivono, ci vogliono centinaia di anni prima che si ricreino ecosistemi simili a quelli perduti. In molti casi, le piantagioni sostituiscono foreste primarie abbattute dal disboscamento industriale. Il rimboschimento, così, diventa un’operazione cosmetica, che serve più alla reputazione delle aziende che alla salute del pianeta.
Non è solo un problema americano. L’Osservatorio Nazionale Ellenico, un organismo finanziato dallo Stato, dice che in Grecia dal 2017 ad oggi è andato perso il 37% delle foreste e dei prati dell’Attica, la regione della capitale, Atene. Oltre il 60% delle foreste a latifoglie e il 41% delle conifere sono stati consumati dagli incendi, e non sono riusciti a rigenerarsi. Le immagini satellitari confermano che gli eventi degli ultimi anni hanno profondamente trasformato il paesaggio: pendii un tempo densamente coperti di alberi oggi si presentano spogli, rocciosi, esposti all’erosione.
Persino nelle aree dove la vegetazione riesce a ricrescere dopo un incendio, è frequente che nuovi roghi cancellino rapidamente gli sforzi della natura. Secondo i dati diffusi da Global Forest Watch, un’organizzazione che utilizza la tecnologia satellitare per analizzare il fenomeno della deforestazione, ben il 74% di tutta la perdita causata dagli incendi nella regione dell’Attica dal 2000 è avvenuta a partire proprio dal 2017.
Il suolo si sgretola
I nuovi alberi, anche quando riescono a ricrescere, corrono spesso il rischio di bruciare nuovamente. Infatti, senza la copertura arborea, il suolo resta esposto al sole: così diventa più caldo, si sgretola con facilità e, alla prima pioggia intensa, è maggiormente soggetto a frane e allagamenti.
Di fronte a questo scenario, gli esperti sono divisi. Piantare può sembrare la soluzione più semplice e intuitiva, ma potrebbe anche rivelarsi un errore strategico. Allora alcuni studiosi propongono strade alternative: coltivare specie arboree e arbustive più resistenti agli incendi, o utilizzare varietà agricole più adatte a climi aridi. Un’altra soluzione potrebbe essere realizzare barriere verdi e fasce di vegetazione più rade, invece di ricreare foreste dense e continue che fornirebbero inevitabilmente combustibile a eventuali nuovi incendi. Quel che è sicuro è che è sempre più difficile ripristinare i paesaggi esattamente allo stato precedente l’incendio.
I modelli predittivi
Anche per questo si stanno sviluppando modelli predittivi per capire quali specie hanno più probabilità di sopravvivere, in quali condizioni e a quali altitudini. Si cerca di capire quali possano essere I luoghi più adatti alla riforestazione, considerando criteri come l’altitudine, la direzione della pendenza verso il sole, l’umidità del terreno e la temperatura. In New Mexico, ad esempio, si stanno piantando pini ponderosa 150 metri più in alto rispetto al passato, per anticipare gli effetti futuri del riscaldamento globale.
Alcune start-up – come Mast, negli Stati Uniti – stanno cercando di ricostruire tutta la filiera del rimboschimento: dalla raccolta dei semi al reimpianto, passando per vivai, logistica e persino vendite di crediti di carbonio. Altri ancora riflettono sull’accettazione del principio che in un luogo colpito dall’incendio si debbano piantare alberi che non sono originari della zona. Di sicuro, scorciatoie non ce ne sono: non basta lanciare semi da un drone, perché la sopravvivenza delle piantine richiede condizioni precise. Riforestare è un lavoro paziente, ostinato e spesso frustrante, fatto di piccoli numeri, lunghe attese e grande incertezza.