Un nulla di fatto. Di nuovo. La chiamata al referendum, ormai, sembra un disco rotto. Con quasi sempre un esito scontato: il mancato raggiungimento del quorum. È stato così anche con l’ultimo, quattro quesiti sul lavoro e il quinto sulla cittadinanza, con l’affluenza alle urne che si è fermata poco oltre il 30%, venti punti sotto il quorum necessario per la validità della consultazione popolare.
Per la Costituzione il quesito abrogativo deve ottenere il voto del 50% più uno degli aventi diritto (in Italia circa 51 milioni di persone) per essere valido. In assoluto su 72 quesiti abrogativi (quello su lavoro e cittadinanza era il 73/esimo) il quorum è stato raggiunto 39 volte, per 33 volte no. La soglia è stata sempre raggiunta dal ’74 (divorzio) fino al ’95 (privatizzazione Rai, il più famoso tra i quesiti). Con una sola eccezione nel ’90 (caccia). Dal ’97 (carriere dei magistrati, tra i referendum di allora) al 2022 (Csm) il mal di quorum si è diffuso stabilmente e nessun referendum abrogativo ha avuto validità. Con una sola eccezione: il referendum del 2011. Quello sul nucleare e sull’acqua pubblica che ebbe una affluenza del 54,8%. Oltre 25 milioni di persone al voto – nonostante i ripetuti tentativi di sabotare la consultazione – riaffermarono l’acqua come un bene pubblico, dissero no al ritorno del nucleare e al legittimo impedimento.
Dei quattro quesiti di allora, quello che incontrò maggior partecipazione fu quello sull’acqua pubblica per cui votò il 57,03% degli elettori. La vittoria fu talmente schiacciante che si fece un calcolo sui risultati ipotetici, stabilendo che si era pronunciata per il “sì” la maggioranza assoluta di tutti gli aventi diritto al voto, cioè la maggioranza di tutti gli italiani in età di voto. Ovvero, anche se fossero andati tutti a votare, con affluenza ipotetica del 100%, e quel 34% che in realtà non ha votato avesse invece votato “no”, il “sì” avrebbe vinto con circa il 52%.
Altra musica rispetto ai giorni nostri. Ma sufficiente per affermare che il problema non è lo strumento referendario ma il suo utilizzo. Se nelle urne gli italiani si ritrovano temi non percepiti come urgenti o vicini, difficilmente il distacco dalla politica verrà ricomposto. Non è il lavoro in sé al centro delle preoccupazioni degli italiani ma i salari bassi. Scrive oggi Tito Boeri su La Repubblica: “I licenziamenti non sono al centro delle attenzioni dell’opinione pubblica per il semplice fatto che sono al minimo storico. Nel 2024 ci sono stati 42 licenziamenti ogni 1.000 lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, il livello più basso degli ultimi 20 anni”. Senza considerare che i quesiti sui licenziamenti hanno riguardato “i soli lavoratori dipendenti del settore privato, un terzo degli elettori: 17 milioni di persone rispetto ai 51 milioni chiamati al voto”.
Quali temi sentono vicini allora gli italiani? Sicuramente i diritti civili, temi delle grandi battaglie degli anni Settanta e Ottanta (divorzio e aborto). E l’ambiente, appunto. Tema che portò al raggiungimento del quorum nel 2011. Tema ancora oggi sentito come impellente se è vero che secondo il Rapporto Censis, l’84% degli italiani ha paura del cambiamento climatico.
Ma il 2011 è ormai caduto nel dimenticatoio, così come la volontà espressa nel referendum. Ad oggi la gestione dell’acqua è ancora lontana dal riconoscimento come bene comune e il nucleare è al centro dell’agenda economica del governo Meloni.